Enciclopedia giuridica del praticante

 

Lezioni di procedura penale

02. Il concetto di prova - La prova al di la' di ogni ragionevole dubbio- Prova di efficacia diversa secondo i diversi fatti da provare

Disc. – Che cos’è la prova?

Doc. – E’ un fatto la cui esistenza rende probabile l’esistenza di un altro fatto: il fatto che Tizio abbia testimoniato che Caio aveva in mano un coltello insanguinato rende probabile il fatto che sia Caio l’assassino.

Disc. - “Probabile” e non “certo”?

 

Doc. – No: di certo non c’è nulla in questo basso mondo e tanto meno nel processo penale.

 

Disc. – Ma, metti, che dieci testi, concordi, senza la minima contraddizione, facciano testimonianza di aver visto Caio, che ora siede sul banco degli imputati, vibrare, allora, la fatale coltellata che uccise Caia.

 

Doc. - Senza dubbio in tal caso il giudice condannerà Caio. Con tutto ciò non potrà dirsi “certo” che sia stato proprio Caio a uccidere. Non potrebbero i dieci testi aver mentito spinti da un loro comune, segreto, astio verso l’imputato? Ciò non è da escludere. E’ molto poco probabile che tutti i dieci testi si siano accordati per mentire. E’ molto probabile che abbiano detto il vero e che Caio abbia effettivamente ucciso. Ma dirsi “certo” di ciò il giudice non potrebbe.

 

Disc. – Ma allora se è in base alle probabilità che nel processo penale si condanna o assolve, il Legislatore dice almeno il quantum di probabilità che la prova deve dare di un fatto perché il giudice possa di questo fatto ritenere l’esistenza?

 

Doc. – Qualche cosa il Legislatore la dice; ma in maniera non precisa. Ad esempio nell’articolo 533 Egli ci indica, o meglio vorrebbe indicarci, le prove che il giudice deve pretendere dalla pubblica accusa per giungere a una condanna: debbono essere prove tali da far risultare l’imputato colpevole “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Più precisamente il primo comma dell’articolo 533 suona così: “Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato ascrittogli al di là di ogni ragionevole dubbio”.

 

Disc. – Ma che significa “al di là di ogni ragionevole dubbio”?

 

Doc. – Il Legislatore partendo dalla realistica constatazione che raramente le risultanze di un processo portano univocamente alla condanna o alla assoluzione, ci dice, da una parte, che alla condanna si deve pervenire solo se sussistono elementi che, per usare le sue parole, fanno “risultare” l’imputato colpevole, dall’altra parte, che alla condanna si deve giungere anche se sussistono elementi che potrebbero far sorgere il dubbio sull’innocenza dell’imputato, se di tale dubbio non terrebbe conto ogni persona “ragionevole”.

 

Disc. - E’ appunto il riferimento alla persona “ragionevole” che non capisco. La ragionevolezza di una persona può solo permetterle di stabilire se un dubbio ha, scusa il bisticcio di parole, “ragion d’essere”, cioè fondamento, oppure no. Mentre per decidere se, nonostante un dubbio non infondato a favore dell’innocenza, si debba lo stesso ritenere la colpevolezza, entra in gioco, non la ragionevolezza, ma la severità o la mitezza del giudicante.

 

Doc. - D’accordo, ma queste sono sottigliezze. Povero legislatore, non infieriamo contro di lui! E’ doveroso piuttosto osservare che il dire che, dei dubbi a favore dell’innocenza, non si deve tenere conto quando ogni persona equilibrata – evidentemente equilibrata tra la severità e la mitezza – non ne terrebbe conto, significa dire nulla, se non si dice anche dove va situato il giusto equilibrio tra severità e mitezza. Cosa che invece il Legislatore non fa.

 

Disc. – E come il Legislatore non dice il quantum di prove che occorre per giungere alla condanna, così, penso, non dice il quantum di prove necessario per l’applicazione di una misura cautelare o per condannare al risarcimento dei danni l’imputato (nel caso che l’azione civile di risarcimento sia stata fatta valere nel processo penale).

 

Doc. - Hai detto bene. In effetti per quel che riguarda le misure cautelari – e qui per brevità mi riferisco solo alle misure cautelari personali – il Legislatore si limita a disporre nell’articolo 273 che “nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi”.

 

Disc. - E naturalmente quando un indizio deve considerarsi “grave” non lo dice. E per quel che riguarda la prova del risarcimento del danno?

 

Doc. - Oh, a tal riguardo il legislatore non dice assolutamente nulla.

 

Disc. - Mi pare allora di poter concludere che è rimesso alla discrezione del giudice decidere quale sia la prova sufficiente per ritenere un fatto.

 

Doc. - Sì, puoi concludere proprio così; però aggiungendo che il buon giudice deve lasciarsi guidare nell’esercizio di tale potere discrezionale da almeno due criteri.

 

Disc. - Quali sono?

 

Doc. - Il primo criterio è questo: tu, giudice, devi pretendere di un fatto una prova tanto più grave e chiara, quante più gravi sono le conseguenze che da tale fatto derivano. Ciò significa che i fatti che portano alla condanna debbono essere provati più rigorosamente che i fatti che portano all’assoluzione; dato che la condanna di un innocente è un fatto grave per la società e tanto più grave quanto più dura è la condanna.

 

Disc. - Ma anche che un colpevole non sia condannato è un fatto grave per la società.

 

Doc. - Fino a un certo punto. In fondo la Società non ha interesse a riempire le carceri (che costano) e a svuotare gli uffici e le fabbriche (che producono) con tutti quelli che hanno commesso un reato. La Società ha solo interesse a mantenere l’efficacia deterrente della minaccia della pena, e al che basta che venga punita solo una percentuale di chi viola la legge penale. Naturalmente quanto ora detto non vale per tutti i tipi di reati: non vale per i reati che mettono in pericolo la sicurezza interna o esterna dello Stato o che sono particolarmente “odiosi” (pensa alla tratta dei minori) - e in effetti per tali reati sono previste norme procedurali più rigide. Ma di massima tieni per vero quel che prima ti ho detto: lo Stato, la Giustizia penale non ha interesse a punire tutti gli autori di reati, ma solo quelli raggiunti da chiare prove. Ciò che, tra l’altro, corrisponde anche a un criterio di economia processuale: limitarsi a punire e, quindi, a sottoporre a processo solo le persone raggiunte da chiare prove, fa risparmiare tempo a giudici, pubblici ministeri, cancellieri ecc., per l’ovvia considerazione che, quando la prova di un reato è chiara, si fa prima a concludere il processo.

 

Disc. - Ciò, mi pare, spieghi anche perché per la punibilità e, quindi, per il sottoporre a processo, certi reati minimi (come l’ubriachezza, il gioco d’azzardo) occorra addirittura la flagranza del reato.

 

Doc. - Esatto.

 

Disc. - Tu hai detto che un fatto deve essere tanto più chiaramente provato quanto più gravi sono le conseguenze che dal suo accertamento derivano: da ciò mi pare che si dovrebbe concludere che la prova dei fatti che portano ad una misura cautelare (come la custodia in carcere, gli arresti domiciliari, il divieto di espatrio ecc.) esige minor rigore di quella dei fatti che portano ad una condanna.

 

Doc. - E sarebbe una conclusione esatta. Posso aggiungere che le misure cautelari più gravi – per intenderci, quelle che limitano la libertà dell’indagato, come gli arresti domiciliari, la custodia in carcere – debbono essere provate con più rigore che le misure meno gravi – come ad esempio un sequestro conservativo o preventivo.

 

Disc. – Quanto hai detto trova un riscontro nel diritto positivo?

 

Doc. - Certo. Infatti - mentre il Legislatore, nell’articolo 273 comma 1, subordina l’adottabilità di una misura cautelare personale (custodia in carcere ecc.) alla sussistenza di “gravi indizi di colpevolezza – per l’adottabilità delle misure cautelari reali (sequestri) non richiede ciò.

 

Disc. - Ma precisamente che cosa richiede per questo tipo di misure, che sono le meno gravi tra quelle previste dal nostro codice?

 

Doc. - Per quel che riguarda il sequestro conservativo, l’articolo 316 si limita a subordinarlo al fatto che “vi sia fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie” delle obbligazioni pecuniarie nascenti dal reato. Quanto al sequestro preventivo esso viene subordinato dall’articolo 321 al “pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati”. Quindi, come vedi, le misure cautelari reali, al contrario delle misure cautelari personali possono essere adottate anche in mancanza di “gravi indizi di colpevolezza”.

 

Disc. - Ti faccio ora una nuova domanda: come reati diversi possono richiedere una prova di diverso rigore, così anche elementi diversi di uno stesso reato possono richiedere una prova più o meno rigorosa?

 

Doc. - Sì, perché due elementi, anche se entrambi sono costitutivi dello stesso reato in quanto entrambi sono necessari per giungere alla sua condanna, possono denotare, l’uno, un’antisocialità del reo, e, l’altro, no o denotarla in maniera diversa; ed è logico che il legislatore subordini la condanna soprattutto alla prova dell’elemento che dimostra o più dimostra l’antisocialità del reo.

 

Disc. - Dacci un esempio di elementi costituivi denotanti, l’uno, l’antisocialità del reo, e, l’altro, no.

 

Doc. - La colpa e il nesso di causalità.

 

Disc. - Non capisco perché l’uno dimostra l’antisocialità del reo e l’altro no.

 

Doc. - Per capirlo pensa a questi due casi: Caio Primo affronta una curva senza suonare il clacson, causa la morte di una persona, è condannato per omicidio colposo; Caio Secondo affronta la stessa curva anche lui senza suonare il clacson, ma perché ha la buona ventura di non trovare nessun pedone sulla sua strada, non uccide nessuno e non è condannato per omicidio colposo. Ora è evidente che l’antisocialità dimostrata nei due casi è identica ed è rivelata dall’elemento, colpa, il non aver suonato il clacson. Mentre l’elemento, nesso di causalità, presente nel primo caso e non nel secondo, giustifica la condanna di Caio Primo e non di Caio Secondo solo per ragioni, peraltro rispettabilissime, di politica criminale: cioè perché il legislatore ritiene eccessivo punire ogni comportamento colposo (che avrebbe potuto causare la morte di una persona) con le gravi pene previste dall’articolo 589 Codice Penale e quindi si limita per così dire a fare una decimazione delle persone che hanno tenuto quel comportamento colposo, prendendo come criterio di selezione il fatto dell’aver esse col loro comportamento causato o no la morte di una persona.

 

Disc. - Capisco la diversa sintomaticità che ha la colpa rispetto al nesso di causalità, ma perché ciò dovrebbe portare a pretendere per la prima una prova più rigorosa che per il secondo?

 

Doc. - Perché l’eventualità di un errore giudiziario sull’esistenza della colpa, è più temuta e deprecata dal legislatore che l’eventualità di un errore giudiziario sull’esistenza del nesso di causalità. Infatti, nel primo caso, verrebbe ad essere condannata una persona che non avrebbe denotata nessuna antisocialità, diciamo così, un probo cittadino, nel secondo caso, invece, verrebbe condannato chi ha tenuto effettivamente un comportamento antisociale e che, solo perché per mera fortuna il suo comportamento antisociale non ha causato danno, sarebbe dovuto andare esente da pena.

 

Disc. - La tesi da te ora esposta, cioè la tesi che il giudice si può accontentare di unaprobatio levior per gli elementi i quali, pur necessari per la condanna, non sono sintomo di antisocialità, è certamente interessante, ma trova un riscontro nel diritto positivo?

 

Doc. - Per quel che riguarda il nesso di causalità, questa tesi trova un riscontro solo in non poche sentenze in materia di responsabilità del medico. Tu sai che certe volte, mentre la colpa del medico è certa, è dubbio se il paziente sarebbe morto anche se gli fossero state fate fatte le cure omesse. Ebbene in tal caso, se si deve ritenere altamente probabile che il paziente con tali cure sarebbe sopravvissuto, molti dei nostri giudici condannano.

 

Disc. - Anche se le probabilità che invece sarebbe lo stesso deceduto sono così alte da rendere sul punto il dubbio “ragionevole” (per usare il termine da noi già incontrato leggendo l’articolo 533)?

 

Doc. - Se ho bene interpretato tali sentenze, sì.

 

Disc. - Ma prescindiamo dal nesso di causalità. Riferiamoci a una condizione di procedibilità, come la valida proposizione di una querela o a una causa di estinzione, come una valida remissione di querela o la prescrizione del reato. Sono tutti eventi questi che vanno accertati dal giudice, ma che non indicano di per se nulla sulla antisocialità dell’imputato: ebbene rispetto a tali elementi la tua tesi ha dei riscontri nel diritto positivo?

 

Doc. - Un qualche riscontro potrebbe rinvenirsi nel fatto che il legislatore ci dica, con l’articolo 533, quando in genere debba ritenersi provata la colpevolezza dell’imputato e, a parte, con due altre disposizioni ad hoc, e precisamente i secondi commi degli articoli 529 e 531, ci dica quando deve ritenersi provata l’esistenza di una condizione di procedibilità o di una causa di estinzione del reato. Ciò fa pensare che il Legislatore si è reso conto che la prova degli elementi non sintomatici di antisocialità va valutata con criteri particolari.

 

Disc. – Già che li abbiamo citati vogliamo leggerci le disposizioni da te citate?

 

Doc. – Il secondo comma dell’articolo 529 recita: “Il giudice provvede allo stesso modo (id est, pronuncia sentenza di non doversi procedere) quando la prova dell’esistenza di una condizione di procedibilità è insufficiente o contraddittoria”. Il secondo comma dell’articolo 531 con formula leggermente diversa suona: “Il giudice provvede nello stesso modo (id est, proscioglie) quando vi è dubbio sull’esistenza di una causa di estinzione del reato”.

 

Disc. - Riprendiamo il discorso. Tu all’inizio dicevi che il potere discrezionale del giudice nella valutazione della prova andava esercitato tenendo conto di due criteri. Uno l’hai detto ed è la gravità delle conseguenze che conseguono al factum probandum. Ora devi dirci l’altro.

 

Doc. - L’altro criterio è quello che possiamo denominare “il criterio della prova migliore”. E consiste in ciò che il giudice deve rifiutare come insufficiente una prova quando la parte era in grado con la comune diligenza di offrirgli una prova più sicura, quindi migliore.

 

Disc. - Un esempio.

 

Doc. -  Tu, imputato, non puoi pensare di provare l’avvenuta oblazione o sanatoria di un reato edilizio portando dei testi: devi mettere sotto gli occhi del giudice la relativa documentazione.

 

Disc. - Lo dice il codice?

 

Doc. - No, lo dice la Corte di Cassazione che in questa sua interpretazione del Codice merita ogni consenso: lo Stato fa bene a non accettare, con una prova meno rigorosa, un maggior rischio di errore giudiziario, quando tale maggior rischio poteva essere evitato dalla diligenza della parte.

 

Disc. - Cambiamo argomento: esiste un onere probatorio nel processo penale? Il codice di procedura dice qualcosa al proposito?

 

Doc. - No, non c’è nessun articolo del codice che dica a chi incomba l’onere di provare questo e a chi incomba l’onere di provare quello.

 

Disc. - Però ci sono degli articoli – tu prima ne hai citati alcuni - che, dicendo quando deve ritenersi provato un fatto, implicitamente permettono di dedurre su quale parte gravi il rischio della mancata prova di quel fatto. Ebbene leggiamo tali articoli, una volta che, metti, un articolo ci dirà che grava sul pubblico ministero la mancata prova del fatto A, noi sapremo anche che è interesse, quindi onere, del pubblico ministero dare la prova del fatto A.

 

Doc. - Il tuo ragionamento all’apparenza non fa una grinza e io ti leggerò gli articoli in questione, se non altro perché è sempre bene leggersi il codice; però vedrai che i conti non ti torneranno: che da tali articoli non ti verrà la soluzione dell’onere probatorio da te cercata. Leggo.

Comma secondo dell’articolo 529: “Il giudice provvede nello stesso modo (id est, assolve) quando la prova dell’esistenza di una condizione di procedibilità è insufficiente o contraddittoria”.

Comma secondo dell’articolo 530: “Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”.

Comma terzo sempre dell’articolo 530: ”Se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull’esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione a norma del comma 1 (id est, indicandone la causa nel dispositivo)”.

Comma secondo dell’articolo 531: “Il giudice provvede nello stesso modo (id est, assolve) quando vi è il dubbio sull’esistenza di una accusa di estinzione del reato”.

Con ciò ho terminato la mia lettura delle disposizioni da cui tu vorresti trarre la indicazione di quale parte abbia l’onere di provare un fatto.

 

Disc. - E infatti mi pare di poterla trarre. Ad esempio dal secondo comma dell’articolo 529 mi pare ben di poter dedurre che tocca al pubblico ministero provare che è stata proposta una querela.

 

Doc. - D’accordo. Ma metti che il querelato opponga che vi è stata, sì, querela, ma vi è stata anche una sua rimessione tacita in quanto il querelante ebbe a scrivergli una lettera in cui senza possibilità di equivoci dichiarava di non volere più procedere giudizialmente contro di lui, ebbene, l’articolo 529 ti dice a chi, in tale ipotesi, tocca provare l’esistenza di tale lettera, se al pubblico ministero o alla difesa?

 

Disc. - Debbo ammettere di no.

 

Doc. - E devi anche ammettere che il buon senso suggerisce di porre l’onere di provare l’esistenza della lettera al querelato che la invoca.

 

Disc. - Debbo ammetterlo; ma almeno mi concederai di dedurre, dal fatto che la disposizione in questione impone la assoluzione quando la prova è contraddittoria, che non occorre che il querelato dia la piena prova dell’esistenza della lettera, basta che ne dia una qualche prova. Infatti basterà questo a rendere contraddittoria la prova dell’effettiva esistenza della condizione di procedibilità e per imporre il proscioglimento a meno che, ben s’intende, il pubblico ministero elimini ogni dubbio sul punto, fornendo la chiara prova dell’inesistenza della lettera.

 

Doc. - Questo te lo concedo senz’altro: la tua è una conclusione logica.

 

Disc. - Mi concederai anche allora che, applicando i risultati a cui siamo giunti nell’esame dell’articolo 529 anche agli altri articoli da te letti, potrò ad esempio dire che, se il signor Rossi, imputato di aver commesso a Roma il 12 dicembre un omicidio, porta a suo alibi il fatto che il 12 dicembre si trovava a Honolulu, ebbene in tal caso incombe certamente al signor Rossi dare una qualche prova di tale fatto, del fatto cioè che si trovava a Honolulu, ma che, una volta datala, incombe alla pubblica accusa l’onere di provare che ad Honolulu egli il 12 dicembre per nulla c’era e che se la pubblica accusa non assolve a tale onere, il giudice deve assolvere perché il fatto non è stato commesso dall’imputato.

 

Doc. - Te lo concedo: è giustissimo quel che dici: complimenti.

 

Disc. - E ancora mi concederai che, se l’automobilista, accusato di aver travolto il pedone sulle strisce pedonali, sostiene che il pedone aveva inequivocabilmente rinunciato alla precedenza e ne dà una qualche prova, ebbene allora toccherà al pubblico ministero l’onere di provare che il gesto inequivocabile di rinuncia alla precedenza sussiste solo nella fantasia dell’imputato e che, se a tale onere il pubblico ministero non adempie, il giudice dovrà ancora assolvere perché il fatto non è stato commesso dall’imputato.

 

Doc. - Tutto giusto quel che tu dici, fuori che per quel che riguarda la formula di assoluzione che dovrà adottare il giudice. Infatti il giudice, quando assolve per difetto dell’elemento soggettivo del reato, come nel caso in cui manca la colpa, deve adottare per “ formula terminativa”, “il fatto non costituisce reato”.

 

Disc. -Me ne ricorderò: voglio dire, mi ricorderò sia che le varie forme che può assumere la decisione del giudice espressa nella sentenza si chiamano “formule terminative” sia che quando fa difetto l’elemento soggettivo la formula terminativa suona “il fatto non costituisce reato”.

 

Doc. - Bravissimo. Però tu che sei tanto perspicace non hai notata una cosa.

 

Disc. - Che cosa?

 

Doc. - Una diversità molto interessante tra i commi 2 e 3 dello stesso articolo 530.

 

Disc. - In che consiste tale diversità?

 

Doc. - Consiste nel fatto che nel comma 2 il legislatore impone l’assoluzione quando “manca la prova che il fatto sussiste” ecc. ecc.; nel comma 3 invece impone l’assoluzione, non quando manca, ma quando “vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione” (come potrebbe essere la legittima difesa) o di “una causa di non punibilità” (come potrebbe essere il rapporto di coniugio per chi è accusato di furto). Con tutta evidenza il Legislatore vuole sollevare la pubblica accusa dal peso di provare tutte le possibili cause di giustificazione e di non punibilità che potrebbero giocare a favore dell’imputato.

 

Disc. - E invero si tratterebbe di un peso ben grave per la pubblica accusa il provare che l’imputato non agì né in stato di legittima difesa, né in stato di necessità ecc. ecc. E mi pare che quel che si è ora detto, per le cause di giustificazione e di non punibilità previste dall’articolo 531, possa ripetersi anche per le cause di estinzione del reato previste dall’articolo 530: mutatis mutandis, la pubblica accusa non dovrà provare che non vi è stata oblazione, non vi è stata prescrizione ecc. ecc.

 

Doc. - Giustissimo. Ma ricordati anche il nome che si dà a questo fenomeno – voglio dire al fenomeno per cui il pubblico ministero è sollevato dal peso di provare tutti i fatti ostativi a una condanna. Questo nome è “semplificazione analitica della fattispecie”.

 

Disc. - Me lo ricorderò. Però, tirando le somme, debbo riconoscere che avevi ragione tu: da nessuna delle disposizioni passate in rivista si ricava un chiaro criterio per stabilire a quale parte incomba l’onere della prova di un fatto. Debbo concludere che è rimesso all’arbitrio del giudice stabilire a quale parte incomba l’onere probatorio?

 

Doc. - No, di certo; il giudice, nello stabilire a chi incomba l’onere probatorio, non potrà agire arbitrariamente ma dovrà farsi guidare dalle regole elaborate dai giuristi nel corso dei secoli; regole che hanno una loro saggezza anche se vanno applicate con elasticità e buon senso.

 

Disc. - Mi puoi indicare alcune di tali regole?

 

Doc. - Ti dirò la principale, che è questa: l’onere di provare va addossato a chi più facilmente può assolverlo. Di conseguenza, dovendosi decidere, se incomba all’imputato provare il fatto (negativo) che egli non ha mai posseduto una rivoltella o se incomba al pubblico ministero provare il fatto (positivo) che egli ha posseduto una rivoltella, si dovrà decidere per la seconda alternativa: infatti la prova di un fatto negativo è più difficile a darsi che la prova di un fatto positivo (anche se spesso – ecco perché va fatta attenzione nell’applicazione di ogni regola! - la prova di un fatto negativo si risolve facilmente nella prova di un fatto positivo: l’imputato può provare facilmente che il 12 dicembre non era a Roma provando che il 12 dicembre era a Honolulu).

Può considerarsi un corollario di questa regola quella che vuole che l’onere probatorio sia addossato alla parte a cui riesce più facile procurarsi la prova. Per rifarci ad un esempio già introdotto, deve essere l’imputato a portare al giudice la documentazione comprovante l’avvenuta oblazione del reato, perché per procurarsela non ha… che aprire il cassetto in cui l’ha riposta.

Altre regole si potrebbero ancora enunciare ma non vale la pena di farlo, perché in definitiva il modo migliore per risolvere i problemi che presenta la materia dell’onere della prova è quello di affidarsi, non a delle regole rigide, ma al buon senso.