Il mio incontro (professionale) con Mu (questo é il nome fittizio con cui difenderò l’anonimato del mio cliente) risale a una afosa giornata di metà agosto 2001. Mu mi telefona: “Avvocato, ho bisogno di Lei!” “Perché?” “Perché mi trovavo tranquillamente sdraiato sulla spiaggia di Puntavagno, quando mi si è avvicinato un vigile, che mi ha fatto un Verbale”. Ho già capito di che si tratta: la spiaggia di Puntavagno è un noto ritrovo di omosessuali, in cui ogni tanto i Vigili fanno delle “puntate” a tutela del buon costume: individuano chi si abbandona ad atti osceni e lo denunciano per il reato di cui all’art. 527 C.P.: evidentemente il mio interlocutore é uno dei “pizzicati”.
All’appuntamento che gli fisso, Mu mi esibisce il verbale fattogli (A1) (A2) e ciò mi conferma nella mia “diagnosi”. Temo che il caso non lasci molto spazio ad una speranza di assoluzione. Ma é anche vero che il tipo di clienti come Mu si preoccupano soprattutto di una cosa: che mogli e figli nulla vengano a sapere della loro disavventura giudiziaria. Di conseguenza, rassicuro Mu che considererò mio principale compito tutelare la sua riservatezza e gli spiego che, a tal fine, la prima cosa da fare é una “elezione di domicilio” presso il mio studio. Tremebondo e grato delle mie rassicurazioni, Mu senza difficoltà mi sottoscrive l’elezione di domicilio con contestuale nomina di fiducia (A3).
A questo punto, io dovrei portare l’atto (id est, la nomina con “elezione di domicilio”) alla segreteria della Procura della Repubblica (questa è infatti la “autorità che procede” — v. art. 162 co.1. Calma, però: non si può mica depositare un atto relativo ad un procedimento quando questo non è ancora iniziato! Ora, perché il procedimento contro il mio amico Mu inizi, occorre che esso venga iscritto nel registro ad hoc (il “registro degli indagati” — vedi art. 335 c.p.p.) e, ancor prima, occorre che alla Procura della Repubblica arrivi la “notizia di reato” (A4) (A5). Bisogna dar tempo al tempo e lasciar passare qualche giorno. Passato che è, mi reco alla Procura e precisamente all’ "Ufficio ruolo generale”, per chiedere appunto se la pratica é già iscritta ed, in caso, chi è il magistrato assegnato.
Operazione semplicissima, penserà lo studioso; non del tutto, in realtà. Non bisogna, infatti, pensare che l’avvocato, giunto alla presenza del funzionario (di solito situato al di là di uno sportello e davanti a un computer), gli possa chiedere oralmente e molto semplicemente “Mi può dire se risulta una denuncia contro Bianchi, ecc. ecc.?”; e che il funzionario, altrettanto semplicemente, oralmente, risponda. Nulla di tutto questo. E ciò per la semplicissima ragione che competente a decidere, se dar risposta o no, alle richieste sul contenuto del registro, non è il segretario della Procura (e per lui, l’addetto allo sportello) ma il magistrato: infatti, non tutti hanno diritto alle informazioni (si legga lo studioso il co.3 dell'art. 335) e stabilire chi ha tale diritto può presentare delle difficoltà giuridiche (che è meglio risolva un magistrato e non un segretario ancorché bravo) e, a parte ciò, il magistrato (V. co. 4 sempre art. 335) potrebbe ritenere opportuno secretare il contenuto del registro. Per farla in breve, l’avvocato che vuole informazioni sul registro deve compilare una richiesta scritta; deve presentarla (naturalmente al funzionario dietro lo sportello) corredata dai diritti di cancelleria (1) e poi con santa pazienza ritornare dopo qualche giorno. Lo faccio; e vengo a sapere il nome del “sostituto procuratore” (diamogli un nome, dott. Ile) e, naturalmente, il numero di ruolo generale (2).
Ho fatto con ciò il primo passo; ora bisogna che muova il secondo: ma in che direzione? Chiedere il patteggiamento (art. 444 C.P.P.): ecco la prima mossa che debbo fare. Si, ma chiederlo dopo aver visto cosa ha scritto il vigile nel verbale: in fondo il cliente si professa innocente: d’accordo, lo fanno tutti, ma non è detto che alcune volte non lo facciano con ragione. Però, al momento, io, difensore, di leggere questo verbale non ho diritto: per l’art. 329 c.p.p. il fascicolo del P.M. è coperto dal segreto istruttorio. Allora? Allora tentar non nuoce: busserò alla porta del P.M. con un pretesto (quale? uno qualsiasi, forse che il difensore non ha diritto di parlare col P.M.?) (3) e, se vedrò che il mio interlocutore è “disponibile”, gli chiederò di farmi leggere il verbale in camera caritatis.
Il P.M. però “disponibile” non lo e per nulla; e io batto in ritirata con le pive nel sacco. Esacerbato e con la voglia di “vincerla a tutti i costi”, penso di presentarmi al P.M. con l’indagato per “rispondere spontaneamente all’interrogatorio”: forse che in tale sede il P.M. non deve “render noti” alla “persona sottoposta alle indagini” “gli elementi di prova esistenti contro di lei?” Certo, lo dice chiaramente l’art. 65 c.p.p.! Sono ridiventato euforico e ho riacquistata la fiducia in me stesso, ma un residuo di prudenza e di buon senso mi consiglia di controllare il codice. Leggo l’art. 374 c.p.p. ed il morale toma ai piani bassi: si, tale articolo prevede una “presentazione spontanea” dell’indagato, ma solo al fine di “rilasciare dichiarazioni”. Certo, nell’occasione il P.M. può sottoporre l’indagato all’interrogatorio, ma solo se lo crede opportuno (e tale non lo crederà quando appunto riterrà che la contestazione degli elementi di accusa venga a nuocere alle indagini).
Insomma, debbo rassegnarmi e aspettare: che cosa? Ma che diamine, il deposito degli atti di cui all’articolo 415 bis c.p.p.: il nostro saggio legislatore si è reso conto che è giusto che il difensore possa influire sulle decisioni che il P.M. deve prendere a conclusione delle sue indagini e, siccome per poter influire su tali decisioni il difensore deve naturalmente conoscere gli atti (uno che parla senza “cognizione di causa” riesce ad avere sul suo interlocutore ben poca influenza!), il legislatore impone al P.M. di depositare presso la propria segreteria, prima della scadenza a lui fissata (dall’art. 405 c.p.p.) per la conclusione delle indagini, “la documentazione relativa alle indagini espletate” (V. art. 415 bis) (A6) (A7). Quindi, per leggermi il famoso verbale dei Vigili (che incastra il povero Mu) non mi resta che aspettare tranquillamente che il P.M. concluda le indagini.
Cosi faccio; e cosi commetto il terzo dei miei errori professionali (fortunatamente, lo dico subito a parziale sollievo del lettore, ormai in forte apprensione per le sorti del povero Mu, tutti questi errori, per uno strano gioco del destino, si risolsero a favore dell’indagato). Perché commetto un errore? Perché l’articolo 415 bis viene interpretato come se stabilisse l’obbligo del deposito della documentazione solo in caso che il P.M. intenda fare la richiesta di rinvio a giudizio (di cui al succ. art. 416): nel caso, invece, che ritenga fare richiesta di giudizio immediato (art. 453 c.p.p.) o di decreto penale di condanna (art. 459 c.p.p.) egli (secondo tale discutibile interpretazione), a tale richiesta, potrebbe dar corso senza nessun deposito e senza dar modo alla difesa di far presenti le ragioni (v. co. 3 art. 415 bis) per cui ritiene ingiusta la promozione dell’azione penale contro l’indagato (che verrebbe cosi trasformato in imputato — v. art 60 c.p.p.). Forse una giustificazione a tale interpretazione la si può trovare, per il giudizio immediato, nell’evidenza della prova che ne costituisce il presupposto (vedi l’incipit dell’art 453); ma per il decreto penale? Esso può essere richiesto anche quando la prova non è “evidente” (leggersi l’art. 459!); e, se e vero che l’imputato, una volta ricevuto il decreto, può farvi opposizione, è anche vero che, in questa sede, l’imputato non può chiedere che il P.M. ci ripensi e non promuova l’azione penale, in altre parole non può sollecitare il P.M. a chiedere l’archiviazione: può chiedere solo “il giudizio (immediato!) e il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena a norma dell’art.444 c.p.p. (v. co.3 art. 461). E allora? Allora de hac jurisprudentia utimur et... patientia!
Lasciamo il nostro latino maccheronico e continuiamo a narrare i fatti: il fatto, anzi il fattaccio, è che il P.M., seguendo tale giurisprudenza, provocò, senza permettere alla difesa di dire né ai né bai, un bel decreto penale (B4) e fu una fortuna per l’imputato. Perché una “fortuna”, si domanderà sbalordito il giovane collega, non era meglio un “patteggiamento”? No, perché, può sembrare strano (e forse lo è, strano ed ingiusto), ma col patteggiamento si può ridurre solo fino ad un terzo la pena (v. co. 1 art. 444), mentre con il decreto penale si può ridurla fino alla metà. Quindi, se il progetto della difesa (il “mio” progetto difensivo, non voglio nascondermi dietro un vile anonimato!) avesse avuto esito positivo ed il patteggiamento, pertanto, si fosse fatto, l’imputato, sia pur di poco, ci avrebbe rimesso. Capita. Lo studioso potrà rendersi meglio conto della cosa confrontando il calcolo della pena fatto nella richiesta di decreto penale formulata dal P.M. (B11) ed il calcolo della pena fatto nella proposta del P.M. contenuta nello “avviso — deposito-atti” (A6 — freccia 1 ,in ultima pagina). Proposta relativa, si badi, ad un fatto eguale come una goccia d’acqua all’altra, a quello qui esaminato.
Ah la giustizia umana! Sbaglia il difensore, sbaglia il giudice: una macchina infernale per rendere nero il bianco e bianco il nero, Comunque in questo caso è andata bene all’imputato; ed io, molto giudiziosamente, mi astengo dallo (ulteriore) errore di fare opposizione al procedimento per decreto, anche se ora fingerò che (preso da improvvisa pazzia) abbia deciso di fare opposizione. In tal caso che cosa avrei dovuto fare? Prima cosa, avrei dovuto redigere l’atto di opposizione (mettendoci tutti gli elementi pretesi dall’art. 461 c.p.p.— e in ciò sarei stato agevolato da un modulo che la previdente Autorità Giudiziaria è usa predisporre). L’ atto così redatto l’avrei dovuto portare nella cancelleria del GIP (quella stessa che aveva curata la notifica del decreto). E poi? Poi, se avessi chiesto il giudizio immediato (se avessi chiesto un rito alternativo la faccenda sarebbe un po’ più complicata e ci riserviamo di parlarne in altra sede) non avrei avuto che da aspettare che mi arrivasse il decreto di citazione davanti (non al GIP, ma) al tribunale.
NOTE
1) Ma che cosa sono questi “diritti di cancelleria” ? Sono i soldi che lo Stato pretende per ripagarsi delle spese sostenute per apprestare i servizi di cancelleria. Fino ad oggi (domani non si sa) si pagano acquistando delle marche ad hoc ed affiggendole di solito sugli atti che la parte deposita.
2) Ad ogni procedimento viene attribuito un numero. Ad esempio: 1930/200l R.G. n.r. significa: procedimento iscritto col numero 1930 nel registro generale delle notizie di reato del 2001.
Praticamente sono due i numeri di ruolo che servono a contraddistinguere in maniera univoca un procedimento: quello assegnato al momento della sua iscrizione nel “registro notizie di reato” e quello assegnato quando passa “in carico” ad un determinato ufficio: ufficio del P.M., ufficio del GIP, ufficio del tribunale. Cliccando (B4), lo studioso potrà vedere un atto su cui (per permettere la rapida individuazione del procedimento cui si riferisce) sono segnati tre diversi numeri di ruolo (guardi, lo studioso, in alto dove si appunta la freccia 1): numero di ruolo delle notizie di reato, numero di ruolo del GIP, numero di ruolo dei decreti penali.
3) A questa domanda, a cui io rispondevo con tanta sicurezza positivamente, da praticone qual sono, forse un professore universitario non darebbe eguale risposta (positiva). Infatti l’art. 367 c.p.p. stabilisce che “nel corso delle indagini preliminari, i difensori hanno facoltà di presentare memorie e richieste scritte al pubblico ministero”; ma non stabilisce per nulla un obbligo del P.M. a dare udienza al difensore.