I miei rapporti con il sig. Be, accusato di atti osceni in luogo pubblico, furono fin dall’inizio caratterizzati dalla più assoluta incomunicabilità. Non colpa mia, né colpa sua: semplicemente il sig. Be era affetto da un grave disturbo del linguaggio diagnosticato come “afasia fluente”: parlava proferendo le parole giuste, ma mettendole in ordine sbagliato. Ad esempio, per dire “Ieri. Avvocato, le ho telefonato”, diceva presso a poco “Telefonato ho ieri le avvocato”.
Certo, questo handicap dell’indagato menomava gravemente la difesa, ma certamente la sospensione del processo non era né opportuna (dato che il cliente, terrorizzato dal processo, non voleva altro che finisse al più presto), né possibile. Non era possibile, infatti, applicare gli artt. 70 ss. c.p.p.., in quanto essi prevedono, sì, il caso che l’imputato sia affetto da “infermità mentale”, ma ne fanno conseguire la sospensione del processo solo quando la “infermità” è tale da “impedire la cosciente partecipazione al procedimento”. Ora, invece, quella del Be era, sì, certamente, una “infermità mentale”, ma non tale da impedirgli la comprensione degli atti che si svolgevano nel procedimento (e quindi la sua “cosciente partecipazione” a questo).
Semmai, se un articolo del codice era al caso applicabile (analogicamente) esso era l’articolo 119 c.p.p., nella parte relativa al “muto”. Però questo era un articolo che sarebbe venuto in rilievo nel futuro svolgersi del procedimento, nel caso di un interrogatorio del Be da parte dell’Autorità Giudiziaria, ma che al momento non poteva risolvermi il problema (della incomunicabilità tra me e Be). Per risolverlo avrei dovuto farmi assistere da un esperto (e la spesa che ciò avrebbe comportato era sproporzionata rispetto alla natura bagatellare del reato) o farmi dare delle risposte per iscritto (ciò che superava la pazienza del Be, che era un tipo un po’ nervosetto, e debbo confessarlo, anche la mia).
Non potendo, quindi, attingere dal cliente la “verità dei fatti” (tanto per usare una parola grossa e che si trova a disagio nel processo penale) decisi di cavarla dal fascicolo di ufficio. Ma l’unico che poteva autorizzarmi (in camera caritatis) a dargli un’occhiata era il P.M.: lo stesso P.M., formalista e severo, che abbiamo già incontrato nel precedente paragrafo, il dottor Ile. E il terribile dott. Ile (proprio come nella vicenda esposta nel precedente paragrafo) mi fece uscire dalla sua stanza con le pive nel sacco: non è detto che avesse tutti i torti. Decisi, comunque, di rappresentargli la infermità mentale dell’indagato, in quanto mi pareva che essa avrebbe potuto portare il P.M. ad una più attenta valutazione del racconto del vigile verbalizzante (forse che non poteva essere accaduto che questi prendesse, un gesto disordinato dovuto all’infermità di mente, come un atto osceno?).
Scrissi, dunque, due o tre righe in tal senso e le depositai in cancelleria: a questo, almeno, avevo diritto: l’art. 367 c.p.p. sul punto è ben chiaro! (v. sub 21).
Il risultato? Nefasto: il P.M. fu, sì, pungolato ad un maggior scrupolo nell’indagine, ma tale maggior scrupolo si manifestò solo nel soprassedere all’emissione del decreto penale (che, come abbiamo visto nel precedente paragrafo, presenta dei vantaggi per l’imputato) ed a disporre il deposito degli atti ex art. 415 bis c.p.p. (A22) e l’interrogatorio dell’imputato (non a opera sua, ma della polizia) (v. sub 22).
Ora, rispondere ad un interrogatorio a te, imputato, serve come mezzo per ottenere dall’Autorità Giudiziaria procedente la contestazione (e quindi la rivelazione) degli elementi su cui l’accusa è fondata; ma quando tu hai a disposizione tutti gli atti dell’Ufficio e da essi puoi comodamente ricavare gli elementi dell’accusa, perché dovresti andare a perdere tempo per rispondere a delle domande ovvie (“E’ vero che il giorno tal dei tali lei si è masturbato?”). Si dirà: “Ma in sede di interrogatorio, tu, indagato, puoi esporre la tua tesi difensiva, puoi dedurre delle prove”. Ma sì, questo è vero, però è anche vero che la tesi difensiva, la puoi dedurre anche in una memoria (e più chiaramente, che in sede di interrogatorio). Lo so che mi si può obiettare che quando si deposita una memoria non si sa mai di quale attenzione il giudice la onorerà, mentre invece l’esposizione orale della tesi difensiva fatta durante l’interrogatorio, il giudice, bon grè mal grè, è costretto ad ascoltarla. Questo è vero, è tutto vero e sono il primo a dire che in sede di interrogatorio un abile difensore ha modo, con sapienti interventi, di inculcare e di far, per così dire, a poco a poco assorbire dal magistrato la propria tesi (quella sua tesi che potrebbe essere letta con disattenzione se scritta in una memoria); però tutto questo se l’interrogatorio è fatto dal magistrato e non da un pubblico ufficiale da lui delegato!
Ecco le ragioni per cui all’interrogatorio davanti al p.u. non ritenni di andare e di far andare il mio assistito. Tanto più, che il verbale, che finalmente ero riuscito a leggere, era tanto chiaro e circostanziato nell’accusa, da farmi escludere l’ipotesi che il p.u. avesse equivocato sulla natura dei gesti compiuti dal mio cliente: gli atti osceni senza dubbio erano stati compiuti.
A questo punto, che fare? Sollecitare il P.M. a chiedere un decreto penale? Nulla ostava a che il P.M. avanzasse una tale richiesta. E sarebbe stata la soluzione migliore per il mio cliente (in quanto, come abbiamo già avuto occasione di osservare nel precedente paragrafo, in un decreto penale si può ridurre fino a metà la pena, mentre in un “patteggiamento” la si può ridurre fino ad un terzo). Però, nell’avviso di deposito, il p.m. aveva avanzata una proposta di patteggiamento (v. sub 23): era tale proposta ostativa alla richiesta del decreto penale (da parte del P.M.)? Io ero propenso a dire di no.
Diverso il caso di un P.M., che avesse chiesto il rinvio a giudizio o il giudizio immediato: in tali casi, sì, che avrei ritenuto sussistere un ostacolo alla richiesta del decreto, perché in tali casi il P.M. si sarebbe spogliato, con la sua richiesta, dell’azione penale: la palla non sarebbe stata più nelle sue mani, ma nelle mani di un altro giudice a cui egli non avrebbe potuto più toglierla; ma, nel caso di proposta di patteggiamento, perché impedire ad un magistrato un ripensamento? egli aveva, sì, proposto un patteggiamento, metti, per sei mesi, ci aveva ripensato e aveva chiesta una condanna per decreto a soli cinque mesi: perché non sarebbe dovuto essere possibile? Si, nulla lo rendeva impossibile, salvo il carattere un po’ testardo del P.M.: certamente egli non avrebbe cambiata idea. E allora inutile perdere tempo; e così decisi di aderire alla sua richiesta.
Dunque, faccio il mio atto di adesione, vi allego l’avviso ex art. 415 c.p.p. (contenente la proposta del P.M.) e mi dirigo all’ufficio del GIP. Sì, ma a quale GIP presento l’atto (dato che l’organico dell’ufficio è composto da più magistrati)? Penso di chiedere lumi proprio alla segretaria del dott. Ile, che (al contrario di lui) avevo trovato così gentile e disponibile; e ciò mi evita una brutta figura. Infatti, la segretaria gentilmente mi spiega che, no, l’istanza non la dovevo presentare dal GIP, ma dal P.M., in pratica proprio da lei: sarà poi il P.M., una volta apposto il suo visto per adesione (ed infatti il mio atto avrebbe dovuto assumere la forma di una comune richiesta di patteggiamento) (v. sub 24), a far trasmettere gli atti al GIP. La cosa mi pare strana (ed in effetti un po’ strana e contorta lo era), ma obbedisco.
Dopo qualche giorno, faccio un salto all’ufficio ruolo del GIP e lì apprendo che tutto procede bene: il GIP è stato nominato ed io non ho che da aspettare di essere avvisato (guardi lo studioso il co.1 dell’art. 127 c.p.p.) dell’udienza fissata. Così avviene: ricevo l’avviso che l’udienza è fissata per il giorno 06.12.00 (A25). Presentarsi? Di solito non ci si presenta. Ma per me, il sei, è un giorno quasi vuoto (di impegni) ed il cliente è uno di quelli che dall’avvocato pretendono il massimo, quindi il giorno sei mi trovo impalato davanti alla porta del dottor Giaca (il GIP incaricato). Aspetto che esca chi mi precedeva nel turno, busso, entro e mi presento: “Difendo il sig. Be, per cui vi è una richiesta di patteggiamento”. Il giudice è gentile: mi assicura che “tutto è a posto”. Il P.M., naturalmente, non c’è: la sua partecipazione all’udienza è facoltativa (veda lo studioso l’art. 447 co.3 c.p.p.) ed egli ha cose più importanti da fare che assistere ad un’udienza “su richiesta di patteggiamento”. Io mi limito ad azzardare: “Quando ci sarà la sentenza?” “Subito – risponde il giudice – ma se vuole averne copia deve aspettare fino a domani, dato che io materialmente, subito, non riesco a scriverla”.
NOTE
21) La “memoria” di cui parlo nel testo, lo studioso la può leggere cliccando (A21): si tratta di due, tre righe scribacchiate (come spesso la fretta costringe a fare a noi praticoni).
22) Clicchi lo studioso su (A22) e guardi là dove si appunta la freccia 8.
23) Clicchi lo studioso sempre su (A22) e guardi dove si appunta la freccia 7.
24) Lo studioso potrà vedere, cliccando (A23), un’istanza di “patteggiamento”, con in calce il “consenso” del P.M. (guardi là dove si appunta la freccia 1); cliccando, invece, (A24) un mandato a patteggiare.