Sai, colto dalla Polizia mentre acquistava dell’eroina da due connazionali, era stato arrestato.
C’era la flagranza (art. 382 c.p.p.), il reato era addirittura di quelli che rendono obbligatorio l’arresto (V. melius, art. 380 co.2 lett. H, c.p.p.): nulla da eccepire, giustamente le manette erano scattate ai polsi del povero Sai. Il quale, da povero diavolo qual era, all’udienza di convalida aveva adottata la tesi difensiva più balorda: “Non era vero che stava acquistando la droga dai connazionali... la droga l’aveva, sì, ma perché era stata da lui presa sotto una pietra dei giardinetti, dove l’aveva precedentemente nascosta, ecc. ecc.”: tant’è, la paura fa novanta, e la paura di Sai era evidentemente che, se mai avesse detto che i suoi connazionali (diventati come lui coimputati di spaccio) gli avevano venduta la droga e avesse contrastato così la loro tesi, che era di assoluta estraneità al fatto, essi gli avrebbero (per lo meno!) rotta la testa.
Naturalmente a Sai nessuno crede: l’arresto viene convalidato, viene disposta la misura della custodia in carcere (v. sub nota 31). Fino a qui, si ripete, nulla da eccepire.
Poi, succede il fattaccio: il GIP emette un decreto di citazione per il giudizio immediato (v. sub 32). La cosa è di per sé corretta: nessuno potrebbe contestare che, nel caso in esame, la prova del fatto “appaia evidente” ed in più l’imputato è stato interrogato: sussistono, quindi, entrambi i presupposti voluti dall’art. 453 c.p.p. per fare a meno del “filtro” dell’udienza preliminare, che, nel caso, si rivelerebbe, per il nostro ordinamento, un’inutile e formalistica garanzia, ossia un’assurda perdita di tempo. Allora, si domanderà il lettore, dov’è il “fattaccio”?
Il “fattaccio” sta in questo: che il Sai, ricevuta la notifica del decreto di citazione, lo guarda un po’, vede che l’udienza è stata fissata per il 7 maggio e, da ciò tranquillizzato, lo mette da parte: c’è tempo per parlarne quando verrà il difensore, che ora è all’estero, ma a metà marzo ritornerà in Italia e si farà vivo in carcere! Non fa caso, il povero Sai, che qualcosa di francese sa, ma d’italiano ne mastica davvero poco, all’avvertimento (voluto dall’art. 456 co 2 c.p.p.), scritto in chiare lettere (però in lettere italiane, questo è il punto), di chiedere, qualora voglia accedere ad un rito alternativo, (entro 7 giorni) (v. sub 33) “il giudizio abbreviato, ovvero l’applicazione della pena a nonna dell’art. 444 c.p.p.”. In breve, egli si lascia scadere il termine per chiedere l’abbreviato o il c.d. “patteggiamento”. Ma — domanderà il lettore — il difensore che ci stava a fare, non poteva provvedere lui a richiamare l’attenzione del Sai sulla necessità di chiedere, e tempestivamente, questo o quel rito alternativo? No, perché, come si è detto, il difensore era all’estero: se fosse stato in Italia, quasi certamente avrebbe fatto visita a Sai in carcere (ogni penalista che si rispetti cerca di recarsi almeno una volta alla settimana a far visita in carcere ai suoi assistiti): il Sai gli avrebbe mostrato l’atto notificatogli ed egli gli avrebbe allora fatto presente ecc. ecc. e tutto si sarebbe risolto per il meglio. Ed invece era all’estero.
Se almeno l’avviso (l’avviso di cui parla il 5° co art. 456 — lo studioso apra il codice e legga!) gli fosse stato notificato entro il termine concesso all’imputato, chissà, forse qualcuno dello Studio avrebbe trovato modo di porre sull’avviso il Sai, di suggerirgli di chiedere il rito alternativo; invece l’avviso al difensore era stato notificato quando il termine era già scaduto. Che fare allora? C’era poco da scegliere: l’unica cosa da fare era quella di domandare la restituzione in termini (art. 175 c.p.p.): motivo? Il non aver potuto osservare il termine (indicato, nel decreto, per chiedere l’abbreviato ecc.), a causa di forza maggiore. Motivo della “forza maggiore”? L’ignoranza della lingua italiana.
Ed era un motivo ben fondato, anzi sacrosanto: perché, sì, è vero, all’imputato “che non conosce la lingua italiana” si nomina un interprete (arg. ex art. 143 co. 2 c.p.p.), affinché lo “assista gratuitamente” “al fine di poter comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa”, ma in pratica tale assistenza si dimostra reale ed efficace solo al momento dell’interrogatorio dell’imputato: quale mai interprete, infatti, si preoccupa di ragguagliare dettagliatamente l’imputato di quel che all’udienza avviene e si dice attorno a lui (di quel che dice il teste tal dei tali, il p.m., il giudice, il difensore...) in modo da permettergli di seguire effettivamente lo svolgimento del processo? Quale mai imputato osa disturbare (fuori d’udienza) l’interprete per farsi tradurre le varie “carte processuali” che gli vengono notificate? Ve lo immaginate lo sbigottimento delle guardie del carcere a cui Sai dice di chiamargli e con urgenza l’interprete? E la faccia dell’interprete che deve recarsi gratuitamente in carcere, e perché mai? Per tradurre un decreto di citazione a un certo Sai! Nessuno ha mai vista una simile faccia, per la semplice ragione che nessuna guardia mai si è sognata di chiamare un interprete in accoglimento della richiesta di un detenuto, e nessun detenuto ha mai osato fare una tale “stramba” richiesta.
In carcere ci si arrangia: l’interprete lo fa un compagno di cella bilingue, ma se ne ha voglia e non è detto che ne abbia tanta da tradurre fedelmente quattro pagine stampate. Conclusione: il motivo posto a conforto della richiesta di restituzione in termini sembrava buono; ed è con più di una speranza che il difensore, dopo aver redatto l’atto, lo aveva portato in carcere a che Sai lo firmasse e, tramite l’ufficio matricola, lo facesse pervenire al giudice. Ma — si domanderà lo studioso — perché mai il difensore non fece tutto da solo? Perché non firmò, lui, l’istanza di restituzione in termini? In realtà l’avrebbe potuta firmare: l’art. 99 c.p.p. è chiaro nell’estendere al difensore “i diritti dell’imputato”: semplicemente di tale articolo il difensore... si era dimenticato (e del resto, va anche detto, che far firmare l’atto all’imputato era facile e non presentava controindicazioni). Questo non fu il solo errore che al difensore fece commettere... il cambio di fuso orario (egli era appena tornato dall’Argentina).
Infatti egli, dopo una lettura non troppo meditata dell’art. 175, aveva rivolto l’istanza (di restituzione in termini) al tribunale (e non al GIP): forse che l’art. 175 (nel suo comma terzo) non dice che “sulla richiesta decide con ordinanza il giudice che procede al tempo della presentazione della stessa”? Forse che il p.m. non aveva chiesto il giudizio “immediato” (art. 453) e forse che il GIP, accogliendo tale richiesta (art. 455) non aveva investito il tribunale della causa? Sembrava tutto quadrare e quadrare nel senso, appunto, che competente a decidere sull’istanza fosse il tribunale (e non il GIP); e tuttavia, presentata l’istanza (o, meglio, fatta presentare, dall’imputato, l’istanza), dentro il difensore una vocina (la voce della coscienza che, ancorché fievole, riesce a farsi sentire anche nel cuore del più indurito di noi penalisti?!) gli diceva ch’egli era stato troppo sbrigativo a risolvere la questione: sì, è vero, il GIP aveva già emesso il decreto con cui disponeva il giudizio immediato, però è anche vero che, al momento della presentazione dell’istanza, il fascicolo era ancora nel suo ufficio (e ci sarebbe rimasto ancora un bel po’: i tempi della nostra burocrazia non sono velocissimi!) e ciò significava che il giudice, che aveva più a portata di mano le carte processuali per decidere con rapidità (si fa per dire!) sull’istanza, era il GIP e non il tribunale: insomma a volersi far guidare da ragioni di efficienza e di funzionalità, era quello e non questo il giudice a cui attribuire la competenza a decidere sull’istanza, e siccome la nostra Corte di Cassazione è (giustamente!) molto sensibile alle ragioni di efficienza della macchina della giustizia, non è detto che, insomma, una almeno piccola ricerca giurisprudenziale sarebbe stato opportuno farla.
Quella benedetta vocina non la smetteva di scocciare ed il difensore fece la sua bella ricerca di giurisprudenza e trovò quello che proprio non desiderava trovare: effettivamente la Cassazione attribuiva la competenza a decidere proprio al GIP, e perché? perché, diceva la Cassazione, anche dopo che il GIP ha emesso il decreto di citazione, non si può dire che non sia più lui a procedere, perché egli pur sempre deve provvedere a selezionare gli atti, che vanno inseriti nel fascicolo del dibattimento (e spediti al giudice di questo) e quelli che vanno inseriti nel fascicolo del P.M. (ed a questo restituiti). Operazione, questa, che di solito non prende molto tempo al giudice (e noi avvocati abbiamo il sospetto che il più delle volte non... gli prenda neanche un minuto di tempo e che a far tutto, sia, solo soletto, il cancelliere!) ma che potrebbe in alcuni (rari) casi diventare complessa e laboriosa (e svolgersi, come previsto dall’art. 431 c.p.p., a cui l’art. 457 rinvia, anche col contraddittorio delle parti). Comunque, giusta o sbagliata, quella era l’idea della Cassazione e quindi il difensore doveva riconoscere di aver preso... un granchio: certe cause veramente nascono sotto una cattiva stella: si cerca di risolvere un problema e se ne fa nascere un altro.
Che fare ora? Certamente sarebbe assurdo che un errore sulle norme che regolano la competenza determinasse l’inammissibilità di un’istanza; certamente, anche nel caso, si dovrebbe applicare il principio stabilito a chiare lettere in materia di impugnazione dall’art. 568 c.p.p. (v. sub 35) ed il tribunale dovrebbe trasmettere gli atti al GIP, de plano, senza che neanche occorra che dichiari la propria incompetenza con sentenza (o con ordinanza o con decreto: nessuna norma infatti gli imporrebbe di rivestire la sua decisione di tali forme e quindi egli potrebbe esprimerla in una semplice missiva: “Al sig. GIP — Genova, per competenza — F.to Pinco Pallino” — si veda l’art. 125 co. 5 c.p.p.) (v. sub 35). Tuttavia, il difensore di Sai era un ansioso cronico (“non si sa mai quel che può passare nella testa dei giudici... meglio cautelarsi”): ritornò in carcere e fece fare al Sai un’altra istanza, questa volta diretta alla giusta autorità, al GIP.
A questo punto, il difensore poteva mettersi l’anima in pace? Non tanto, perché la istanza a ben guardare, non gli sembrava ben formulata: sarebbe stato preferibile farla seguire da una “memoria” che chiarisse meglio alcuni punti. Il difensore fa dunque una memoria; ma, ecco il punto: dove e quando presentarla? Il “dove” è facile dirlo: alla cancelleria del GIP; il “quando” invece è un bel problema: sarebbe infatti contro ogni logica presentare la memoria prima che sia arrivata (dal carcere) l’istanza e, d’altra parte, sarebbe inutile presentarla quando... sull’istanza il giudice ha già deciso: si tratta di presentare l’istanza in quell’intervallo (certe volte di poche ore, certe volte di varie settimane) che si forma tra l’arrivo dell’istanza e la decisione del giudice. E la cosa non è facile, perché l’arrivo dell’istanza non lascia traccia nei registri di cancelleria e quindi è inutile interrogarli: bisogna rassegnarsi a dar la posta al cancelliere, sperando di ottenerne informazioni esatte e cortesi: un’operazione abbastanza defatigante e antipatica. Comunque il difensore riesce anche a presentare tempestivamente la memoria ed a quel punto non gli resta veramente che aspettare.
Aspettare che cosa? Che gli notifichino la decisione del giudice? Ma può esser sicuro che tale decisione gli verrà notificata? Non tanto: tale decisione, infatti, non è impugnabile (v. sub 36) (strano ma vero: il giudice prende una decisione che comporta come unica conseguenza negativa il pagamento di qualche decina di euro — si pensi alla condanna per un reato contravvenzionale — ed il legislatore concede all’imputato e al suo difensore addirittura il diritto di impugnarla davanti alla Corte Suprema; si dà poi il caso che il giudice prenda, come nella fattispecie in esame, una decisione che, praticamente, negando all’imputato il giudizio abbreviato, gli brucia anche la possibilità di ottenere 3 o 4 mesi di reclusione in meno (v. sub 37) e contro tale decisione, che sia, o no, sospetta di aver bene interpretato la legge, il legislatore non dà nessuna chance di proporre impugnazione: non è strana la nostra legge?!) e siccome tale decisione (id est, la decisione che respinge l’istanza di restituzione in termini) non è impugnabile, neanche andrebbe notificata (v. sub 38). Ma il buon senso nelle nostre aule giudiziarie non è del tutto assente: in conformità ad una prassi (lodevole!), il giudice fece notificare all’imputato il suo provvedimento — provvedimento che lo studioso potrà leggere cliccando (A34): vedrà che il rigetto dell’istanza è motivato benino, purtroppo per il povero Sai.
Note a Terza esperienza: In difesa di Sai (davanti al G.I.P.)
31) V. artt. 390 e 391 c.p.p. Per vedere il verbale di una convalida di arresto clicca (A61). Il Verbale non riguarda l’eroe della nostra storia, il Sai, ma due altri poveri diavoli (uno dei quali pochi anni dopo, ancora giovanissimo, morì in circostanze tragiche, ahimè), il Bresci ed il Fantasi. Consigliamo allo studioso di aprire una parentesi, e di cliccare su (A61) (A62) (A63) (A64).
32) V. artt. 453 e ss. cp.p. ed, in particolare, l’art. 454, per la richiesta del giudizio immediato da parte del P.M., e l’art. 455, per quel che riguarda il decreto del GIP che l’accoglie (A31). Prima di emettere il suo decreto, però, il GIP deve conoscere davanti a quale sezione del tribunale citare l’imputato e per quale giorno. Ora, la scelta di tale sezione e di tale giorno va fatta tenendo conto delle esigenze del tribunale e, quindi, va fatta da chi meglio conosce tali esigenze: il tribunale stesso. Ecco allora che il GIP interpella il tribunale: (A33) — nella richiesta, per cui vedi (A32), il GIP chiede al Presidente di “designare il giudice incaricato della trattativa (sic) del rito abbreviato”, perché i due coimputati di Sai avevano appunto chiesto tale rito alternativo. Per i “motivi” su cui il GIP fondò la sua decisione di ammettere il giudizio immediato (per Sai), vedi (A31) in terza pagina, là dove si appunta la freccia 1.
33) Questi sette giorni sono stati portati a 15 da una “novella” intervenuta proprio dopo il “fattaccio” e proprio per evitare gli inconvenienti nel testo lamentati. L’avvertimento di cui si parla nel testo trova in (A31) la sua collocazione, là dove si appunta la freccia 3 (in terza pagina); mentre la freccia 2 indica la data dell’udienza.
34) Il co.5 art. 568 nella sua ultima parte recita: “Se l’impugnazione è proposta a un giudice incompetente questi trasmette gli atti al giudice competente”.
35) Che recita: “(I provvedimenti per cui non sono prescritte le forme della sentenza, dell’ordinanza, del decreto) sono adottati senza l’osservanza di particolari formalità e, quando non è stabilito altrimenti, anche oralmente”. E’ solo quando il processo è giunto ad una certa “maturazione” che il Legislatore impone di dichiarare l’incompetenza con sentenza. Per cui il giudice “se riconosce la propria incompetenza”, “nel corso delle indagini preliminari”, “pronuncia ordinanza” (co.1 art. 22), se la riconosce “dopo la chiusura delle indagini preliminari”, “la dichiara con sentenza” (co.3 art. 22). Nel caso, poi, l’incompetenza sia rilevata nel dibattimento, va da sé che essa viene dichiarata con sentenza (v. artt. 23 e 24).
36) Infatti sono impugnabili solo quei provvedimenti che tali la Legge dichiara (V. melius, l'art. 568 c.p.p.) e la decisione emessa sull’istanza di restituzione in termini non è dichiarata dalla Legge tale (V. art. 175).
37) A tanto potrebbe equivalere quella riduzione di un terzo che premia l’imputato che ha richiesto il rito speciale (V. art. 442 co.2 c.p.p.).
38) L’art. 128 c.p.p., infatti, recita: “Salvo quanto disposto per i provvedimenti emessi nell’udienza preliminare e nel dibattimento, gli originali dei provvedimenti del giudice sono depositati in cancelleria entro cinque giorni dalla dichiarazione. Quando si tratta di provvedimenti impugnabili, l’avviso di deposito contenente l’indicazione del deposito è comunicato al pubblico ministero e notificato a tutti coloro cui la legge attribuisce il diritto di impugnazione”.