Proprio nel tempo in cui facevo del mio meglio per difendere il Sai da quell’accusa di spaccio, di cui ho parlato nella precedente esperienza, un collega mi telefona: “Ho visto che difendi un certo Sai”. “Ah, sì, come sei venuto a saperlo?”. “Guardando le nomine che il carcere fa pervenire all’Ordine” (vedi nota 1). “Bene, ma perché ti interessa la cosa?”. “Perché io difendo d’ufficio lo stesso Sai in un altro procedimento in cui è accusato di un altro reato di spaccio, presumibilmente legato dal nesso della continuazione con quello dalla cui accusa tu lo difendi”.
Era chiaro che i due procedimenti andavano seguiti insieme: che chi difendeva Sai in uno, lo doveva difendere anche nell’altro (ed infatti il difensore nel procedimento A, anche solo per stabilire se il reato del procedimento B fosse connesso col vincolo della continuazione con quello di cui nel procedimento A, avrebbe dovuto consultare gli atti del procedimento B e non lo avrebbe potuto fare se non fosse risultato difensore anche nel procedimento B stesso). Ne parlo col collega e giungiamo alla conclusione che la cosa migliore è che sia io ad assumere la difesa in entrambi i procedimenti. Quindi, fattomi nominare da Sai anche per il secondo procedimento, mi metto a studiare la situazione. Ma in realtà c’è poco da studiare: l’optimum sarebbe che i due procedimenti fossero “riuniti” ed, infatti, in tal caso il giudice (identico per entrambi i procedimenti), a conclusione del processo dichiarerebbe (se effettivamente esistesse) la continuazione (nell’unica sentenza). Ma ciò non si può ottenere (dato che l’art. 17 c.p.p. esclude che possano essere riuniti due procedimenti che si trovano in un “grado diverso” del giudizio — com’è nella fattispecie, in cui un procedimento è in appello e l’altro in primo grado).
Non resta, dunque, che lasciare giungere al loro “capolinea” i due procedimenti e, poi, chiedere al giudice dell’esecuzione che applichi la continuazione (v. art. 671 c.p.p.); oppure, ancor meglio, concludere un procedimento (chiaramente quello in fase più avanzata, quello già in sede di appello) e far poi valere (naturalmente ai fini di ottenere la continuazione) la relativa sentenza, divenuta irrevocabile, nell’altro.
Dunque al lavoro: per ora si studia la nuova causa come se l’altro procedimento non esistesse e senza pensare alla continuazione, poi si vedrà.
Tanto per cominciare, sono state fatte validamente tutte le notifiche dovute all’imputato? Purtroppo, sì; col rito degli irreperibili, ma sono state fatte bene: infatti il P.M., prima, e, poi, anche il GIP (vedi nota 2) hanno emesso il loro decreto di irreperibilità (dopo la constatata impossibilità di effettuare le notifiche ai sensi dell’art. 157 c.p.p. e l’infruttuosità delle indagini disposte per reperire l’imputato).
Tutto ok, allora? No, perché, è vero che le notifiche sono state regolarmente fatte, ma il notificando non ne ha mai saputo nulla; e ciò gli ha impedito di difendersi adeguatamente, in particolare gli ha impedito di avanzare la richiesta del rito alternativo del giudizio abbreviato: richiesta che ora, dopo che già l’udienza preliminare è stata celebrata, non può più essere avanzata (V. art. 438 co.2 c.p.p.).
Sì, ma queste considerazioni hanno un qualche peso e pregio per il nostro codice? A tutta prima sembrerebbe dover dire di no. Ed, infatti, per principio, una notifica regolare fa presumere iuris et de iure la conoscenza dell’atto da parte del notificato.
Però è anche vero che a tale principio il legislatore apporta non poche eccezioni (vedi sub 3). Anzi si può dire che in via di massima il Legislatore ritiene superabile la presunzione di conoscenza, che dovrebbe accompagnare ogni notifica regolare. Dove Egli invece pone dei limiti è negli atti che autorizza a compiere; e qui si manifesta l’assurdità della normativa (pensavo, a torto o a ragione, io, povero difensore di Sai!): per questa, infatti, la prova di non conoscenza dell’atto (ancorché regolarmente notificato) è utile solo al fine di proporre l’impugnazione o l’opposizione a decreto (v. art. 175 co.2 c.p.p.), e di fare le cc.dd. “dichiarazioni spontanee” (v. art. 489 c.p.p.) o per ottenere (in grado di appello) la “rinnovazione dell’istruzione dibattimentale” (v. art. 603 co.4 c.p.p.). Ora, però, non è assurdo ritenere la mancata impugnazione di una sentenza a sei giorni di arresto (che metti non abbia concesso le attenuanti generiche, che avrebbero portata la pena a 5 giorni di arresto) più pregiudizievole (per l’imputato) della mancata proposizione di un’istanza di rito abbreviato (che avrebbe comportato, come nella fattispecie, la riduzione della pena di parecchi mesi)? Certo che è assurdo! E, siccome, come già il buon Farinaccio insegnava, absurda sunt vivanda, decido di richiedere la rimessione in termini per compiere la richiesta di rito abbreviato in base ad un’interpretazione estensiva o analogica dell’art. 175. c.p.p.
La richiesta mi fu respinta: era un po’ scontato: era un tentativo disperato dal momento che tale richiesta (di restituzione) era stata da me proposta oralmente e senza essere preparata da una memorietta scritta: abbiamo già avuto occasione di dire, infatti, che il giudice penale, di fronte ad un’istanza che gli pone delicati problemi giuridici, finisce per andare nel pallone e scrivere le cose più strane.
Non mi arrendo, comunque, e — anche perché mi rendo conto da alcune frasi dette dal giudice e, diciamo pure, dal suo contegno aggressivo verso l’imputato, ch’egli si prepara a dargli una stangata (vedi sub 4) — ne penso un’altra: agli atti manca la prova che l’imputato sia quello che ha venduto lo stupefacente (sì, c’è una ricognizione fotografica, ma quella, è pacifico, non costituisce sufficiente prova): certo, se viene il pubblico ufficiale, trova l’imputato seduto sulla panca, e il giudice gli domanda: “E’ lui che vendeva la droga?”, la frittata è bella che fatta: certamente il p.u. risponde di sì! Ma per fortuna il pubblico ufficiale non si è presentato all’udienza (per testimoniare) ed il giudice ha rinviato per escuterlo: basta non far trovare l’imputato in aula alla prossima udienza ed il gioco è fatto: la prova, l’unica prova in mano al P.M., fa cilecca.
Do, quindi, un velato consiglio all’imputato e questi, che è un buon intenditore, mangia la foglia e alla udienza successiva non si presenta: è un suo diritto: nemo tenetur se detegere!. Specie quando collaborare con la Giustizia (volutamente scrivo la parola con la g minuscola) significa collaborare ad un gioco ingiusto e perverso ai propri danni: questi riconoscimenti in aula sono infatti delle farse: seduto sul banco degli imputati, quindi ben riconoscibile, c’è l’imputato: si chiede alla persona, che deve effettuare il riconoscimento: “Vede in questa aula la persona che ha effettuata la rapina?”. Che cosa vi aspettereste che succedesse? Naturalmente che il teste punti il dito verso l’imputato e dica “Si, la vedo, è lui”; ed è quello che in effetti immancabilmente succede.
Con ciò, si badi bene, non si vuol escludere, in via di principio, la legittimità dei riconoscimenti in aula: vi sono, infatti, dei casi in cui si può sicuramente escludere il pericolo (quel pericolo, per evitare il quale il legislatore predispone l’iter probatorio degli artt. 213 ss c.p.p.) che il teste cada in errore nell’individuazione e nel riconoscimento di una persona. Sono i casi, ad esempio, di Tizio, che ha avuto per settimane al suo servizio l’imputata o che comunque l’ha per molto tempo diuturnamente frequentata: in tal caso si potrà dubitare della buona fede del teste (si potrà dubitare cioè che sia sincero), ma, se in buona fede lo si ritiene (se sincero lo si ritiene), non si potrà non credergli quando, avendogli indicato in aula la persona (da riconoscere), dirà con sicurezza “E’ lei!”. Vi sono, però, altri casi, in cui, invece, il pericolo di un errore nel riconoscimento (in buona fede) esiste, e per evitarlo occorre adottare le cautele di cui agli artt. 213 e ss. (ossia presentare il riconoscendo insieme ad almeno due altre persone che gli somiglino ecc. ecc.); ed il caso di Sai rientrava proprio in tale categoria.
Tutto questo dico soprattutto per discolparmi: perché qualche lettore potrebbe pensare che feci male a suggerire al mio assistito di non comparire: certo avrei fatto male se la giustizia funzionasse bene, ma siccome funziona male, io ritengo di aver fatto benissimo a consigliare al mio assistito di eluderla.
Comunque, riprendiamo il discorso: ho dato (sia pur velatamente) a Sai il consiglio di non comparire ed egli non compare. Compare invece il teste ed io spero ardentemente che il giudice (non già non condanni, condannerà, ma) condanni semplicemente basandosi sul riconoscimento fotografico effettuato dal teste: infatti il teste non era riuscito ad agguantare lo spacciatore da lui sorpreso, però andato in Questura, aveva passato in rivista varie foto di spacciatori ed in una di esse aveva ritenuto di riconoscere il Sai.
La Cassazione è chiara nell’escludere la efficacia probatoria (meglio, la piena efficacia probatoria) di un tale riconoscimento: in appello avrei avuto buon gioco! Bene, la trappola è tesa, ma il giudice non ci casca.
Merito del P.M., che ha buon naso, subodora il tranello, e, dopo aver detto lemme lemme (e con una faccia sprizzante bonaria ironia che, volentieri, avrei metaforicamente preso a schiaffi) che il riconoscimento fotografico, prova, sì, ma forse non a sufficienza, chiede al giudice di ordinare la traduzione dell’imputato per procedere, con la sua forzata collaborazione, al riconoscimento. Ahimè è una richiesta ben fondata (sull’art. 490 c.p.p.) ed io come difensore (del tutto spiazzato!) non posso far altro che protestare che non è giusto fare un rinvio del processo per rimediare ad un défaillance della pubblica accusa: questa, se voleva procedere ad un riconoscimento in aula, avrebbe dovuto dichiararlo nella lista di cui all’art. 468 c.p.p.. Ma tale tesi, bisogna che lo riconosca, passato l’accaloramento dell’udienza, era in fondo ben discutibile (vedi sub 5) e, comunque, l’art. 507 c.p.p. ha le maglie troppo larghe e favorisce ogni lassismo (e, diciamo anche questo: quante volte la difesa si era giovata di tale lassismo per ottenere dei rinvii con cui rimediare a proprie défaillances: ed, allora, era bene che sul punto non facesse troppo la voce grossa!).
Conclusione: le obiezioni della difesa vengono disattese. Unico contentino a lei concesso: si esclude un riconoscimento informale in aula; ed infatti la traduzione (dell’imputato) viene, sì, disposta, ma solo per una ricognizione formale ai sensi degli artt. 213 ss. c.p.p.
Alla successiva udienza, dunque. Ed a questa le cose vanno com’era prevedibile: il tribunale, che avrebbe dovuto organizzare il riconoscimento procurando la presenza in aula di due persone (da affiancare al riconoscendo), non ha pensato a nulla: solo dopo qualche ora si riesce a raccattare due persone da affiancare al riconoscendo (vedi nota 6).
La difesa fa, quindi, mettere a verbale che le persone prescelte non somigliano al riconoscendo (come invece vorrebbe l’art. 214) e poi si prepara al peggio. Che, com’era prevedibile, arriva con le parole del pubblico ufficiale riconoscente: “Riconosce in una delle tre persone lo spacciatore da lei sorpreso?” — domanda il giudice. “Sì” — risponde con voce ferma il pubblico ufficiale — “è quella al centro” (chissà perché gli imputati hanno quasi sempre l’infelice idea di porsi al centro della fila?!
A questo punto, il processo è fatto: io mi rendo conto che l’unica chance di ridurre la pena è di far valere la continuazione tra il fatto addebitato nel processo in corso e l’altro fatto di spaccio (avvenuto pochi mesi dopo) per cui Sai era già stato condannato (a tre anni). E, per raggiungere tale scopo, produco la sentenza (da cui risulta il passaggio in giudicato), che ha definito il precedente processo. Nessuno eccepisce nulla: l’art. 495 c.p.p. — che vorrebbe dedotte nella fase degli atti introduttivi al dibattimento, tutte le prove, non solo quelle per cui va operata la discovery prima dell’udienza, ma anche quelle, come le documentali, per cui la discovery non è necessaria — è un articolo poco rispettato nelle nostre aule di giustizia!
Si passa, quindi alla discussione: io non demordo (non è nel mio carattere e nel carattere di nessun vero avvocato penalista!), sostengo anche la assolutoria; ma so di combattere una battaglia persa: punto quindi soprattutto a ridurre la pena e ad ottenere la continuazione.
Il giudice legge la sentenza: la pena non è quella che si aveva ragione di temere all’inizio del processo (il giudice ha evidentemente recepito parte del discorso difensivo sull’assurdità di punire il Sai più severamente perché aveva commessi più atti di spaccio: è ben difficile imbattersi in un spacciatore occasionale: tutti gli spacciatori sono delinquenti abituali e di ciò il legislatore già tiene conto nel determinare la pena!). Però non riconosce la continuazione.
Penso “Ne spiegherà le ragioni in sentenza”. E passati una ventina di giorni mi reco in cancelleria e mi leggo la sentenza: sulla continuazione neanche una parola. Ma questa giustizia è fatta con il cervello o con le scarpe?! Arrabbiatissimo (a torto o a ragione) faccio appello.
Note a Quinta esperienza
1) Ed, in effetti, per prassi l’ufficio matricola del carcere, quando un detenuto fa una nomina di fiducia, oltre a farne pervenire copia all’autorità giudiziaria che procede (questo per l’art. 123 c.p.p.), ne fa pervenire copia anche all’Ordine degli avvocati. In tal maniera, si permette ai penalisti di avere cognizione delle nomine loro fatte (e infatti non è che il detenuto Pinco Pallino, che nomina di fiducia l’avvocato Cicero, si preoccupi sempre di avvisarlo di ciò: alcune volte lo fa, spesso non lo fa: di conseguenza, può anche avvenire che l’avvocato Cicero, nominato da un imputato, di ciò nulla sappia, fino a che non gli venga notificato un atto giudiziario, quindi, certe volte, troppo tardi!).
2) Anche il GIP, perché il decreto di irreperibilità emesso dal P.M. nel corso delle indagini preliminari aveva perso efficacia con la pronuncia del provvedimento con cui era stata definita l’udienza preliminare e disposto il rinvio del Sai a giudizio (v. co.1 art. 160 c.p.p.). Pertanto il GIP, dovendo notificare il decreto di citazione a Sai (in quanto contumace — v. co.4 art. 429 c.p..), aveva dovuto disporre (per il co.4 art. 160c.p.p.) nuove ricerche per poi pronunciare, a sua volta, il decreto di irreperibilità di cui all’art.159 c.p.p.
3) E così l’art. 489 c.p.p. permette al contumace “che prova di non aver avuto conoscenza del procedimento a suo carico” (scilicet, nonostante la validità della notifica) di rendere delle “dichiarazioni a sua difesa”. L’art. 603 co.4 c.p.p., a sua volta, impone al giudice d’appello di procedere alla “rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”, “quando l’imputato, contumace in primo grado, ne faccia richiesta e provi di non essere potuto comparire per non aver avuto conoscenza del decreto di citazione, sempre che in tal caso il fatto non sia dovuto a sua colpa, ovvero, quando l’atto di citazione per il giudizio di primo grado è stato notificato mediante consegna al difensore, nei casi previsti dagli art. 159, art. 161 comma 4 e art. 169 c.p.p., non si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento”. L’art. 175 co.2, infine, restituisce l’imputato contumace in termini per proporre impugnazione od opposizione a decreto penale (salve alcune ipotesi che lo studioso troverà indicate ibidem).
4) Anzi, se ben ricordiamo, il giudice aveva manifestato, claris verbis, tale suo intendimento (dato che era un giudice che aveva per lungo stazionato nell’organico della magistratura requirente e aveva un carattere molto estroverso e franco: ciò che gli passava per la testa lo diceva). So che a questo punto il giovane collega inorridirà: ma come il giudice dice ecc. ecc. e tu, difensore, non lo ricusi? Che ci sta a fare l’art. 37 c.p.p.?! E sì, giovane collega, l’art. 37 esiste e senza dubbio permette di ricusare un giudice che esterna una sua convinzione di colpevolezza (“indebitamente”, vale a dire quando ciò non è richiesto dalla motivazione di un suo provvedimento); ma come fare comprendere ad un’anima bella come la tua, giovane collega, che la teoria è un conto e la pratica un altro?! L’articolo 37 è come quegli abiti che si mettono solo nelle feste: insomma, è buono solo per i grossi processi o anche per quelli piccoli in cui, però, siede sul banco degli accusati un incensurato, ma non per un processo in cui è imputato un Sai: si può essere sicuri che la Corte di Appello, a cui la ricusazione fosse stata presentata (art. 40 c.p.p.) avrebbe chiuso, non uno, ma tutti e due gli occhi per non accoglierla.
5) Infatti né la lettera né la ratio dell’art. 468 c.p.p. impongono di anticipare al momento della presentazione della lista, la richiesta di una “ ricognizione di persona” (né quella di un “confronto”, né quella di un “esperimento”).
6) Ma quale la ragione di tale difficoltà, si domanderà lo studioso? Forse che non c’erano tra il pubblico due persone abbastanza somiglianti al Sai da potergliele affiancare? C’erano, ma non erano per nulla disposte a fare da “comparse”; questo soprattutto per il timore (a dir il vero infondato) di rappresaglie. Certo l’A.G. avrebbe potuto coattivamente chiamarle all’ufficio (a cui volevano sottrarsi — in base a quale articolo? In base all’articolo 650 C.P.); ma fece bene a non farlo: in fondo nella ricognizione la c.d. “comparsa” deve recitare una parte e la recita male se è costretta con la forza.