Lezione V: Gli obblighi, alla fedeltà, all’assistenza,alla collaborazione, e alla coabitazione.
Doc. Alla enunciazione dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio, il Legislatore dedica gli articoli 143 – 148, che noi ora passeremo a esaminare. Non prima però di aver fatto - per scusarci, se non sempre giungeremo a risultati sul piano logico soddisfacenti – questa premessa: Noi viviamo in un’epoca di crisi profonda; un’epoca in cui le istituzioni, anche quelle che sono i muri portanti del diritto, si stanno disgregando (“L’uomo e le rovine”é il titolo di un libro di Julius Evola, uno dei più grandi Pensatori del nostro tempo): il giurista si trova nella stessa situazione di chi visitasse una città distrutta da un bombardamento: il più delle volte deve limitarsi a dire “Ecco, lì, dove ora ci sono quelle macerie, c’era quel bel edificio” e basta: certo non ci si può aspettare che ridia bellezza e razionalità a un universo (giuridico) sconvolto.
Disc. Bene, ora che ti sei sfogato, che ti sei tolto il fastidioso sassolino dalla scarpa, scendiamo a un discorso più raso terra: é importante conoscere quali sono gli obblighi che derivano dal matrimonio?
Doc. Sì, perché, anche se solo uno di essi (l’obbligo di contribuzione) é coercibile (chiaro che non si può costringere manu militari Caio a essere fedele, ad assistere, a collaborare e coabitare con Caia), dall’inadempimento di tutti può derivare un obbligo risarcitorio e soprattutto perché, la conoscenza di tutti questi obblighi, é presupposto per una giusta applicazione degli articoli 123 (sulla simulazione) e 151 (sulla separazione).
Infatti per l’articolo 123 il matrimonio é impugnabile quando “gli sposi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti da esso nascenti”; e noi abbiamo visto in un precedente paragrafo, che tale articolo va interpretato nel senso che, basti il rifiuto di sottomettersi ad un solo obbligo (naturalmente un obbligo che sia “essenziale” come quelli al cui esame ci accingiamo), per determinare la invalidità del matrimonio.
Disc. E perché, per la applicazione dell’articolo 151, é importante la conoscenza dei doveri che nascono dal matrimonio.
Doc. A dir il vero é importante, non per l’applicazione di tutto l’articolo 151, ma solo del suo capoverso, che recita: “Il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”.
Disc. Chiarito ciò, passiamo al commento degli articoli, che, tali doveri, individuano, cominciando dall’articolo 143, che recita nei suoi primi due commi (del terzo, che si riferisce all’obbligo di contribuzione, daremo lettura nel prossimo paragrafo):
“Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri.
Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione”.
Doc. Il primo comma in buona sostanza riproduce il dettato del capoverso dell’articolo 29 della Costituzione, che così é formulato: “Il matrimonio é ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”.
Disc. Tuttavia una certa diversità tra le due disposizioni, quella del legislatore ordinario e quella del legislatore costituzionale, c’é. E con ciò, non mi riferisco all’omissione nell’articolo 143 del riferimento ai “limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare” - dato che tale riferimento, opportuno nella norma costituzionale sarebbe stato un non-senso in quella del legislatore ordinario –, ma alla diversa formulazione della prima parte dell’articolo 29: in questa si parla di “eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, mentre nell’articolo 143 si viene a dire che marito e moglie “acquisiscono gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri”.
Doc. In effetti. il rispetto della “eguaglianza giuridica e morale dei coniugi”, non implica necessariamente l’attribuzione ad essi degli stessi diritti; anzi, l’attribuire a due persone disuguali gli stessi diritti, può significare trattarle in un modo ingiustamente diseguale: chi non ricorda la favola di Esopo: la volpe astuta diede da mangiare alla cicogna in un recipiente piatto, come quello che si era riservata a sé stessa, ma la cicogna dal becco lungo....non si sentì per nulla trattata con giustizia.
Disc. Mi accorgo che non conviene invitarti a commentare ulteriormente il primo comma: chissà quali sproloqui continueresti a dire – ben so quale pellaccia di reazionario tu sia, e che tu consideri addirittura nefasta l’eliminazione, attuata nel 75, dell’organizzazione gerarchica della famiglia (il marito, capo della famiglia, con il dovere di provvedere ai bisogni della moglie, che però gli deve obbedienza): guai se dicessi certe cose: perderemmo anche quei pochi lettori che ora ci seguono! Limitati a commentare il secondo comma.
Doc. Va bene, mi limiterò a commentare il secondo comma; il quale fa un elenco degli obblighi che derivano dal matrimonio e lo fa, é importante notarlo, in ordine di decrescente importanza: primo, l’obbligo per il legislatore più importante,quello di fedeltà, ultimo, l’obbligo meno importante, quello di coabitazione.
Disc. Cominciamo quindi a parlare dell’obbligo più importante: “l’obbligo reciproco di fedeltà”.
Ti dirò che a me, il pensiero legislativo, sul punto, mi pare monco, incompleto. Infatti si può dire che un persona manca di fedeltà verso un’altra, quando la prima si rende inadempiente a un obbligo, a un impegno che verso la seconda ha assunto (il barone Menabò ha assunto l’impegno di militare sotto le bandiere del re Manfredi, ma visto il rischio, i sacrifici che ciò comporta...diserta). Se così é, dice le cose a metà un legislatore che si limita a imporre a un coniuge di essere fedele, cioé di mantenere fede agli obblighi assunti (evidentemente con il matrimonio ed evidentemente diversi da quelli indicati congiuntamente all’obbligo di fedeltà nel comma che stiamo commentando), senza dire quali obblighi mai essi siano.
Doc. Tu hai perfettamente ragione: e quando nella mia premessa ti dicevo che il nostro diritto di famiglia é ormai ridotto a un rudere, mi riferivo a situazioni come questa.
Ma di fronte a queste situazioni il giurista non può certo limitarsi a dire “Qui il legislatore ha detto cose incomprensibili, senza senso, passiamo ad altro: saltiamo l’obbligo di fedeltà e parliamo solo degli obblighi di assistenza, collaborazione, eccetera”.
No, il giurista non può fare questo, ma deve cercare di sostituire il tassello mancante, usando dei (pochi) elementi che l’Ordinamento giuridico gli offre; nel caso, utilizzando il disposto dell’articolo 1 della c.d. Legge sul divorzio (Legge 1 dicembre 1970 n. 898) - articolo che recita: “Il giudice pronuncia lo scioglimento del matrimonio (….) quando (…) accerta che la comunione spirituale e materiale dei coniugi non può essere mantenuta (...)”.
Disc. Ma che cosa c’entra la “comunione spirituale e materiale dei coniugi” con l’obbligo di fedeltà?
Doc. C’entra invece, perché il legislatore parlando di “comunione spirituale dei coniugi” come elemento necessario del matrimonio (se questa “comunione spirituale” c’é, c’é il matrimonio, se non c’è, non c’é il matrimonio), parte evidentemente dal presupposto di una comunanza di “valori” esistente tra i coniugi, di una loro comune concezione della vita, di una loro comune weltanschauung. Orbene, la cosa più logica é di attribuire, alle parole “monche” del legislatore, il significato che fedeltà si ha, quando un coniuge “tiene un comportamento conforme ai valori che aveva in comune con l’altro coniuge al momento dello sposalizio”; e che infedeltà vi é, quando, con il suo comportamento, egli tradisce tali valori.
Disc. Ma questi valori potrebbero essere diversi da coppia a coppia: Bianchi Alfredo e Manuela Rosalia sono cattolici praticanti: per loro é grave peccato anche una scappatella sessuale con un terzo, per loro é grave peccato l’aborto; mentre Rossi Saverio e Rossi Luisa sono “liberi pensatori”: per loro “viva l’aborto, viva il libero amore”.
Doc. Questo significherà che l’adulterio di Bianchi Alfredo rappresenterà una “infedeltà” e motiverà quindi la domanda di separazione per “addebito” di Rosalia, mentre l’adulterio di Rossi Saverio non motiverà la domanda di separazione della di lui moglie Luisa.
Disc. Ma tu parti dal presupposto che tutte le coppie abbiano dei “valori” condivisi; ma Mario e Mariolina potrebbero dire il loro “sì” con le tasche piene di soldi e le teste completamente vuote di “valori”.
Doc. Tu mi vuoi dire che possono esistere delle coppie di sposi il cui matrimonio non é animato da valori comuni. Lo riconosco, é vero; ma in tal caso ci troviamo di fronte a un guscio senza anima, a una caricatura di quello che deve essere il matrimonio - questo, bada bene, anche per il nostro legislatore, che sì, riconosce a tale matrimonio, se vogliamo chiamarlo così, validità, ma fa ciò soprattutto per evitare un disordine maggiore e a tutela degli eventuali figli.
Disc. Resta il fatto che, in questo “matrimonio senza valori comuni”, non si potrebbe neanche ipotizzare un obbligo di fedeltà e, soprattutto, neanche si potrebbe ipotizzare una domanda di separazione.
Doc. Una domanda di separazione per violazione dell’obbligo di fedeltà no, di certo; ma si potrebbe ipotizzare una domanda per violazione di uno degli altri obblighi che derivano dal matrimonio; e, soprattutto, si potrebbe ipotizzare una domanda di separazione motivata proprio dal fatto di una mancanza di valori comuni tra i coniugi. Domanda fondata ovviamente sul primo comma dell’articolo 151 e cioé sulla “intollerabilità” del protrarsi della convivenza: cosa c’é di più intollerabile per un essere umano, di più avvilente e deformante per la sua personalità, che convivere (scambiarsi intimità...) con chi, a lui, da nessun valore, da niente di importante dunque, é legato?
Disc. Basterebbe questo a motivare una domanda di separazione?
Doc. A mio parere, sì; e ritengo che tale soluzione trovi conforto nell’articolo 2 della Costituzione che recita “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Da questo articolo risulta infatti che una formazione sociale, qual’é la famiglia, viene presa in considerazione dal legislatore costituzionale in quanto fattore di sviluppo della personalità di chi vi fa parte; cosa per cui non può non diventare logico e doveroso per il legislatore ordinario, permettere a una persona di uscire da una “formazione sociale” (nel caso la famiglia), quando questa opprime, soffoca la personalità di chi vi é inserito, invece di aiutarlo a svilupparla.
Disc. Può anche capitare che Mario e Mariolina si presentino davanti all’ufficiale di stato civile con ideali comuni, ma che, poi, le loro concezioni della vita si divarichino: Caio era un cattolico praticante, ma, col passare del tempo, diventa un libero pensatore: che succede allora?
Doc. Succede che, se Caio terrà un comportamento che costituisca tradimento dei valori condivisi con Caia al momento del matrimonio, Caia potrà chiedere la separazione per addebito di Caio.
Disc. E se anche Caia avesse mutato idee, avesse abbandonato i valori a cui aderiva al momento del matrimonio, però adottando valori diversi da quelli di Caio: erano tutti e due cattolici, ma, poi, uno, é diventato buddista, l’altra, musulmana?
Doc. In tal caso vale quel che ho detto prima per le coppie che si sposano senza avere valori comuni: entrambi gli sposi potranno chiedere la separazione per “intollerabilità” della convivenza.
Disc. Parliamo ora del secondo obbligo, che dal matrimonio deriva: l’obbligo “all’assistenza morale e materiale”.
Doc. Dopo il riferimento che abbiamo fatto all’art.1 della c.d. Legge sul divorzio,e alla necessità per tale articolo che vi sia una “comunanza spirituale”, una comunanza di “valori” dunque, tra i coniugi, é facile individuare la ratio dell’imposizione dell’obbligo di assistenza: se tra Caio e Caia sussiste un’effettiva comunanza di valori, diventa per loro spontaneo e logico l’impegno ad aiutarsi vicendevolmente nelle difficoltà; se, viceversa, Caio e Caio non si sentono di assumere davanti all’ufficiale di stato civile l’impegno ad un vicendevole aiuto, significa che tra loro una vera “comunanza spirituale” non sussiste, che quello, che vorrebbero costituire, non é un vero matrimonio; e così, non più riferendoci all’atto matrimoniale (al matrimonium in fieri), ma alla vita matrimoniale (al matrimonium in facto), se Caio trascura l’obbligo di assistenza che ha assunto verso Caia, ciò fa presumere che é venuta meno quella comunanza di valori che lo univa a Caia, e ciò basterebbe per riconoscere a questa, a Caia, il diritto a chiedere la separazione (ai sensi del primo comma dell’articolo 151), il fatto, poi, che Caio abbia tradito l’impegno preso in actu matrimonii giustifica che a Caia sia riconosciuto, non solo il diritto di chiedere la separazione, ma di chiederla (ai sensi del secondo comma art. 151) “per addebito”.
Disc. Il tuo discorso é chiarissimo. Non occorre poi che tu mi porti degli esempi di assistenza materiale e morale, perché essi sono intuitivi e me li so fare da solo. Esempio di assistenza materiale: Caio é malato, e Caia gli compra e gli somministra le medicine. Esempio di assistenza morale: Caia ha perso l’impiego e Caio cerca di risollevarle il morale procurandole delle “distrazioni” o semplicemente con parole incoraggianti.
Doc. Senz’altro pertinenti gli esempi che hai portato, mi pare però che trascurino un aspetto dell’obbligo di assistenza, che, invece, é importante: assistenza non significa solo “aiutare l’altro coniuge nelle difficoltà”, ma, e a maggior ragione, significa anche “non mettere (consapevolmente) l’altro coniuge in difficoltà”: tu, Caia, se tuo marito ha commessa una gaffe, non devi ricordarla davanti a terzi, così ulteriormente umiliandolo; tu, Caio, non devi esibire davanti a Caia, e peggio se in pubblico, una particolare affettuosità per la signora Marilina - e nulla rileva che tu con questa “non vada a letto”: anche così il tuo comportamento fa soffrire, umilia, mette in difficoltà, la donna che tu avevi promesso invece di aiutare nelle difficoltà (per cui questa potrà, lamentando il tuo “adulterio in bianco”, reclamare la separazione per tuo addebito).
Disc. Ovvio che Caio e Caia devono astenersi dal danneggiarsi sia in poco che in tanto; ma fino a che limite debbono darsi un aiuto reciproco? l’azienda di Caio sta per fallire, Caia deve attingere alle risorse del suo patrimonio per aiutarlo? Caia ha una malattia infettiva, Caio deve curarla a costo di cadere anche lui malato?
Doc. La risposta (negativa) alla prima domanda la dà il fatto stesso che il legislatore, come vedremo meglio inseguito, non solo ritiene giusto che i coniugi tengano separati e non confondano i loro patrimoni, ma é disposto a dare tutela (se del caso manu militari) alle pretese economiche che un coniuge vanti verso l’altro (ad esempio, e questo lo vedremo parlando del regime della comunione dei beni, Caia, se il marito si dibatte in difficoltà economiche, lungi dal dover aiutarlo, può chiedere che egli sia escluso dall’amministrazione della comunione o può chiedere la separazione giudiziale dei beni - vedi meglio gli articoli, 183, 193).
Con tutto ciò, certamente Caia ha il dovere di aiutare economicamente il marito bisognoso; ma ciò solo fino al punto di assicurare a lui lo stesso tenore di vita di cui essa stessa gode: se essa pasteggia a ostriche deve permettere anche al marito di pasteggiare a ostriche. Ma tutto questo lo vedremo meglio parlando del dovere di contribuzione.
Quanto alla seconda domanda, la risposta la dà il primo comma dell’articolo 151 (da noi già visitato accennando al diritto, riconosciuto ai coniugi, di separarsi in caso di sopravvenienza di “fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza”): l’obbligo di assistenza si ferma quando costringerebbe a comportamenti che rendono “intollerabile” la vita, nel senso che, non solo non fortificano la personalità di chi li compie (il che ben può avvenire: ci sono, per fortuna, anche nella nostra società, individui che sanno affrontare con tale spirito le “prove” della vita, da uscirne fortificati e migliorati), ma la degradano (Maria dopo aver adempiuto, al capezzale del marito, alle nauseabonde incombenze della infermiera ne....esce “distrutta”).
Disc. E’ chiaro: un legislatore, come il nostro, che vede (con favore) la partecipazione delle persone alle “formazioni sociali” e in primis a quella fondamentale formazione sociale che è la famiglia, in quanto occasione di sviluppo della personalità (articolo due della Costituzione); un legislatore che spalanca la porta di uscita al coniuge che trova intollerabile il continuare nella convivenza (articolo 151 del Codice), non può imporre a questi quegli adempimenti che gli...rendano intollerabile la convivenza – tenendo anche presente, e ciò é logico, che la capacità di tolleranza varia da persona a persona.
Disc. Passiamo a parlare ora del terzo obbligo menzionato nell’articolo 143: l’obbligo “alla collaborazione nell’interesse della famiglia”.
Doc. Obbligo di collaborare, per due coniugi, significa obbligo di prendere insieme le loro decisioni. Mentre Caio e Caia, da single, potevano prendere tutte le loro decisioni autonomamente, una volta sposati, essi debbono prendere alcune delle loro decisioni, quelle “nell’interesse della famiglia”, concordemente.
Disc. Quali sono queste decisioni prese “nell’interesse della famiglia”?
Doc. Io ritengo che siano: in primo luogo, le decisioni che riguardano la individuazione dei bisogni, dei membri della famiglia, da soddisfare (si compra un nuovo vestitino a Mariuccia? ci si accontenta di mangiare pane e salame oppure si compra anche del pollo? si va ad abitare in un quartiere residenziale o popolare?...) e di conseguenza la parte di reddito e di “lavoro casalingo” (nel senso lato in cui, come vedremo, tale espressione va usata) da destinare, alla soddisfazione di tali bisogni; in secondo luogo, le decisioni che riguardano il modo migliore di adempiere all’obbligo di educazione e istruzione dei figli, che ai coniugi impone l’articolo 147 (mandiamo Mariuccia in una scuola cattolica o statale?...).
Però, altri potrebbe interpretare estensivamente l’espressione usata dal legislatore e ritenere che un coniuge deve essere disposto a concordare con l’altro coniuge, tutte le decisioni, che comunque incidono sulla vita familiare. Dato che, senza dubbio, ci sono decisioni, diverse da quelle da me or ora indicate, che possono incidere sulla vita familiare.
Disc. Ad esempio?
Doc. La decisione di iscriversi a un partito o di aderire a un movimento religioso, oggetto di una stampa negativa e comunque mal visti dall’opinione pubblica: Caio si é iscritto al partito bianco e la gente segna a dito Caia come “quella che ha sposato quel delinquente che milita nel partito bianco” (col sottinteso che se Caia ha sposato un delinquente, un po’ delinquente deve essere anche lei). Ora, io ritengo che, queste decisioni, siano di carattere personale, anzi strettamente personale, e che il coniuge le possa prendere anche senza il consenso e contro la volontà dell’altro – e questo perché ritengo, che, i doveri verso la famiglia, non giungano fino al punto di impedire a un suo membro di esprimere la sua personalità aderendo al partito, alla religione che vuole, esprimendo le opinioni che vuole -, però debbo riconoscere che la soluzione da me adottata é discutibile.
Disc. Ma, oltre a queste decisioni strettamente personali, ce ne sono altre, che un coniuge può prendere senza il consenso e addirittura contro la volontà dell’altro?
Doc. Bisogna distinguere, tra decisioni che il coniuge può prendere anche contro la volontà dell’altro, e decisioni che può prendere di propria iniziativa, cioé senza chiedere il preventivo consenso dell’altro.
Disc. Comincia a fare qualche esempio delle prime.
Doc. Come esempio di decisioni, diverse da quelle strettamente personali, che il coniuge può prendere, anche contro il consenso dell’altro, si possono portare tutte le decisioni che attengono all’amministrazione del patrimonio personale del coniuge (Caio, che prima di sposarsi aveva quella certa villetta in riva al mare, continua a gestirla come più gli pare e piace) e le decisioni sui beni di carattere personale (se fare riparare il computer, quale vestito comprarsi...).
Disc. E ora dì delle decisioni, che il coniuge può prendere di sua iniziativa, senza cioé previamente concordarle, ma da cui si deve astenere, se l’altro coniuge, ad esse, si oppone.
Doc- Sono quelle che, nella terminologia del Codice, sono destinate ad “attuare l’indirizzo concordato”.
Disc. Spiegati meglio.
Doc. L’articolo 144 nel suo primo comma dispone, che “i coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa”.
Disc. Parlando di “indirizzo familiare”, il Codice si riferisce evidentemente a quella scelta dei bisogni della famiglia (melius, dei vari membri della famiglia) di cui tu prima parlavi?
Doc. E’ così; proseguo nel discorso: nel secondo comma dell’articolo 144, il Codice però sente bisogno di chiarire che “a ciascuno dei coniugi spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato”.
Disc. Quindi, se Caio e Caia hanno deciso di comprarsi la villetta al mare, Caio può partire in quarta e, senza nulla dire a Caia, comprare quella villetta che a lui piace (e che magari a Caia dispiace) e per il prezzo, che egli (che di mercato edilizio potrebbe saperne quanto me, cioé nulla) reputa adeguato? Mi sembra assurdo!
Doc. E infatti é tanto assurdo che...così non é: Caio potrà prendere una decisione, diciamo così, “di secondo grado” - per intenderci, conveniamo di chiamare, “di primo grado”, una decisione del tipo “si compra una villa al mare” e, “di secondo grado”, una decisione del tipo “si compra quella tal villa al mare e per quel tal prezzo” - quando questa “decisione di secondo grado” é già talmente determinata nei suoi elementi (é, nell’esempio da te fatto, determinata sul prezzo, sul tipo di villetta, sul notaio a cui affidarsi, eccetera) che l’integrarla (nei suoi elementi mancanti) é cosa di ordinaria amministrazione: Caio e Caia, per fare un caso che, più di quello da te portato, si presta a un esempio, hanno deciso di spendere sui trecento euro per l’acquisto di un frigo: Caia può andare in un super mercato e decidere, senza consultarsi con Caio, se comprare quel frigo a quattro piani o quello a un piano, quel frigo bianco o quel frigo verde e così via.
In ogni caso, siano importanti o no le decisioni attuative da prendere, il coniuge non può prenderle, nel caso di opposizione dell’altro: Caio vuole il frigo bianco, Caia dice “no, voglio il frigo verde”: Caio non ha il potere di comprare di sua sola iniziativa il frigo bianco.
Disc. Quindi, secondo te, il capoverso dell’articolo 144 va interpretato restrittivamente.
Doc. Certo: é proprio l’esempio da te portato poco prima, che dimostra che non può essere interpretato letteralmente.
Doc. Tu hai detto che “obbligo di collaborazione” per un coniuge significa “obbligo ad essere disponibile a concordare le decisioni”: non hai detto “obbligo di collaborazione” significa “obbligo del coniuge di concordare”.
Doc. Non l’ho detto a ragion veduta. Infatti nulla vieta a Caio e a Caia di accordarsi nel senso che, le decisioni nell’interesse della famiglia – tutte o quelle relative ad un certo settore (metti all’amministrazione di quella tal azienda) - siano prese dal solo Caio (o viceversa, dalla sola Caia); e poi di vivere.. .in perfetta armonia e felicità. Però, attenzione, tale accordo non vincolerà mai Caia a lasciare prendere tali decisioni all’altro coniuge: questi deve sempre essere “disposto”, se così Caia, cambiando idea, volesse, di concordare con Caia tali decisioni (prima lasciate alla sua discrezionalità). Parlando dell’articolo 218 vedremo come questa delega “di fatto” (senza vincolo giuridico per chi la dà, cioé) é prevista dallo stesso legislatore.
Disc. Non abbiamo finora parlato della ratio che sottende all’obbligo di collaborazione? Secondo te, qual’é?
Doc. Secondo me, l’obbligo di collaborazione, al contrario di quelli che abbiamo prima esaminati, non va visto come una conseguenza della concezione del matrimonio come condivisione di valori comuni: Caia Caio potrebbero benissimo condividere, sposandosi, l’ideale di una “matrimonio all’antica”, in cui le decisioni familiari spettano al solo marito; quindi, se, poi, a tale ideale di fatto ispirassero la loro vita matrimoniale (lui, felice nella sua posizione di pater familias, lei, felice nella sua parte di “schiava e regina”) nessuno in via di logica potrebbe dir loro “No, così non va: il vostro modo di gestire il matrimonio contraddice...i valori comuni da voi accettati).
Disc. Allora?
Doc.Allora, io riterrei che, se il legislatore non ammette una gestione del rapporto matrimoniale in cui le decisioni (nell’interesse della famiglia) siano riservate a uno solo dei coniugi, non é perché questo viene a contraddire i valori comuni accettati dagli sposi al momento di sposarsi, ma perché viene a contraddire quello che il legislatore ritiene un “valore”: la parità di diritti tra i coniugi.
Disc.. Facciamo un passo indietro, torniamo a parlare dell’articolo 144: ho capito che, quando il legislatore parla di “interesse della famiglia”, fa semplicemente una ipostasi: non esiste la famiglia in sé, esistono Caio, Caia, Marianna che la compongono; cosa per cui “l’interesse della famiglia” é l’interesse di Caio, di Caia e di Marianna. Non ho capito, però, che vuol dire il legislatore, quando parla di un “preminente” interesse della famiglia, rispetto a quello dei coniugi.
Doc. Vuol dire che, l’interesse egoistico di Caio e di Caia, deve passare in secondo ordine, davanti all’interesse della figlia Marianna; il che va senz’altro condiviso.
Disc. Un ultima domanda: che succede, se Caia dice “Mandiamo Marianna in vacanza al mare” e Caio dice “No, mandiamola in montagna” e non trovano un accordo: succede che nessuna decisione si prende e Marianna.. ...passa le sue vacanze in città?
Doc. No, la soluzione dell’impasse é data dall’articolo 145, che recita:
“In caso di disaccordo ciascuno dei coniugi può chiedere, senza formalità, l’intervento del giudice il quale, sentite le opinioni espresse dai coniugi e, per quanto opportuno, dei figli conviventi che abbiano compiuto il sedicesimo anno, tenta di raggiungere una soluzione concordata.
Ove questa non sia possibile e il disaccordo concerna la fissazione della residenza o altri affari essenziali, il giudice, qualora ne sia richiesto espressamente e congiuntamente dai coniugi, adotta, con provvedimento non impugnabile, la soluzione che ritiene più adeguata alle esigenze dell’unità e della vita della famiglia”.
Disc. Quindi il giudice si sostituisce ai coniugi nel prendere la decisione.
Doc. Per nulla, hai seguito male la mia lettura: il giudice, in prima battuta, tenta di fare opera di mediazione e di far raggiungere ai coniugi “una soluzione concordata”. Se non ci riesce, egli dismette le vesti di “mediatore” e assume quelle di “arbitro”, cioé prende la decisione in sostituzione dei coniugi; ma questo a due condizioni: prima, che ne sia richiesto “espressamente e congiuntamente dai coniugi”; seconda, che “il disaccordo concerna la fissazione della residenza o di altri affari essenziali”.
Peraltro, studiando i vari regimi patrimoniali, vedremo che il Legislatore prevede interventi del giudice molto meno soft nella vita familiare: ad esempio, con l’articolo 183, prevede che il giudice possa escludere un coniuge dall’amministrazione dei beni in comunione.
Disc. E’ ora di parlare di quello che, tra gli obblighi previsti dall’articolo 143, é, dal Legislatore, considerato il meno importante: l’obbligo “alla coabitazione”.
Doc. Al contrario dell’obbligo alla collaborazione or ora visto, l’obbligo alla coabitazione trova la sua spiegazione nella concezione del matrimonio come condivisione di valori comuni. Più precisamente, la riserva mentale dei coniugi, al momento della celebrazione del matrimonio, di non coabitare, é vista dal Legislatore come indice di una mancanza in loro di “valori condivisi” (con la conseguenza che il loro matrimonio potrà essere considerato nullo – ai sensi dell’articolo 123 sulla simulazione); e il venir meno in loro, una volta sposatisi, della disponibilità a coabitare, é da Lui vista come un venir meno in loro di quei “valori” prima “condivisi” (con la conseguenza che, se il coniuge, che si é allontanato materialmente dal domicilio coniugale, é anche quello che si é allontanato idealmente dai valori prima comuni, l’altro coniuge potrà chiedere la separazione per suo addebito).
Disc. E, in effetti, due persone, che condividono gli stessi valori, non trovano difficoltà alla vita in comune; mentre, questa vita in comune, può veramente essere insopportabile, quando ad essa sono costrette persone di “sensibilità” diverse.
Tuttavia a suggerire a Caio e a Caia la vita sotto due diversi tetti potrebbero essere serie ragioni: metti, Caio fa l’avvocato a Genova e Caia fa il giudice a Torino: non si può pretendere che Caio o Cia si facciano diverse ore di treno ogni giorno per andare a dormire sotto lo stesso tetto.
Doc. E in effetti in tale caso e in casi simili, la mancanza di una coabitazione perderebbe il suo significato di indice di un difetto di valori comuni e l’obbligo di cui parliamo non si dovrebbe ritenere inadempiuto.
Disc. Tra le serie ragioni, che possono giustificare il rifiuto della coabitazione, va annoverata anche la intollerabilità della convivenza?
Doc. Certamente, sì.
Disc. Questo senza che rilevi a quale dei coniugi tale intollerabilità é addebitabile?
Doc. Si, per escludere la violazione dell’obbligo di coabitazione, basta la intollerabilità della convivenza: a Caia, che abbandona il domicilio domestico, in seguito a una convivenza resa insopportabile e insostenibile in seguito ai suoi ripetuti adulteri, non può essere addebitata la separazione (ai sensi del capoverso dell’articolo 151) per violazione all’obbligo di coabitazione. Ma naturalmente potrebbe esserle addebita per violazione dell’obbligo di fedeltà. In altre parole, al giudice, per decidere sul diritto alla separazione, basterà la constatazione della intollerabilità della convivenza, ma per “addebitare” la separazione dovrà indagare sulle cause, che hanno determinato questa intollerabilità della convivenza (senza arrestarsi superficialmente alla constatazione del rifiuto alla coabitazione).
Disc. Che, l’intollerabilità della convivenza sia sufficiente a giustificare il rifiuto della coabitazione (a prescindere da chi ha determinato tale intollerabilità), si evince da qualche disposizione di legge?
Doc. Sì, si evince dall’articolo 146, che ritiene “giusta causa” dell’allontanamento dal domicilio domestico, la proposizione di una domanda di separazione, a prescindere che essa sia fondata o no, quindi in considerazione unicamente della insostenibilità della convivenza che la proposizione di tale domanda inevitabilmente determina.
Più precisamente i primi due commi di tale articolo recitano:
“Il diritto all’assistenza materiale e morale previsto dall’articolo 143 é sospeso nei confronti del coniuge che, allontanatosi senza giusta causa dalla residenza familiare, rifiuta di tornarvi.
La proposizione della domanda di separazione o di annullamento, o discioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio costituisce giusta causa di allontanamento dalla residenza familiare”.