Lezione VI: L’obbligo di contribuzione.
Doc.Dopo aver enunciato, nel terzo comma dell’articolo 143, l’obbligo dei coniugi di contribuire “ai bisogni della famiglia”, il legislatore enuncia separatamente, nel primo comma dell’articolo 316bis, e con una formula, sia pur leggermente, diversa, il loro obbligo di provvedere a “mantenere, istruire, educare e assistere moralmente la prole”; così come se il primo obbligo si dovesse determinare con criteri diversi che il secondo.
Disc. Scusa se ti interrompo, io penso che, anche su questo punto, il nostro discorso acquisterà chiarezza, se cominceremo a leggere le norme in questione.
Ecco come recita il terzo comma dell’articolo 143: “Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze, e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”.
Ed ecco com’é formulato l’incipit del primo comma dell’articolo 316bis: “I genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo”.
Effettivamente una differenza di formulazione tra le due norme c’é: la prima (art.143), stabilisce l’obbligo di contribuzione dei coniugi “in relazione alle loro sostanze (…...)”, la seconda (art.316bis), lo stabilisce “in proporzione alle rispettive sostanze (…....)”. Ciò significa che il legislatore non impone che, l’obbligo di contribuzione ai bisogni, diciamo così, generici della famiglia (esclusi quindi quelli relativi ai figli), sia adempiuto dai coniugi in proporzione delle loro sostanze (…...)?
Doc. Se così fosse, con che altro criterio l’interprete dovrebbe determinare il contributo di ciascun coniuge? Evidentemente, se così fosse, il legislatore avrebbe lasciato l’interprete nella massima incertezza e oscurità su un punto fondamentale e su cui, solo lui, il legislatore, può fare luce. Sarebbe un modo assurdo di legiferare, che l’interprete non può attribuire di certo al legislatore; per cui deve concludere che, la diversità di formulazione tra i due articoli, é solo dovuta ad un lapsus e che anche l’obbligo di contribuire ai bisogni “generici” della famiglia va determinato col criterio della proporzionalità.
Disc. Ma quali sono questi bisogni “generici” della famiglia, a cui i coniugi sono obbligati a provvedere?
Doc. Qui la risposta é veramente facile: sono quelli che i coniugi, nel “concordare l’indirizzo della vita familiare” (art. 144, già da noi commentato), ritengono opportuno soddisfare: Caio e Caia non sono disposti a cavare dalle loro tasche più di mille euro al mese e di conseguenza si accontentano di vivere a pasta e fagioli? contenti loro, contento il mondo! (Però, il discorso cambia in relazione ai bisogni dei figli: anche questi bisogni debbono, sì, essere soddisfatti con un criterio proporzionale, ma, non solo nel senso che, alla somma necessaria, i coniugi debbono contribuire in proporzione alle rispettive sostanze, bensì anche nel senso che l’ammontare di tale somma deve essere proporzionato alla loro ricchezza: se Caio e Caia, pur essendo miliardari, si contentano di pasta e fagioli, loro mangino pure pasta e fagioli, ma i figli li trattino da miliardari: li facciano frequentare una scuola di miliardari, gli diano un’educazione da miliardari e anche, perché no? nei limiti che la formazione del loro carattere lo consente, gli diano il vitto e i divertimenti dei miliardari).
Disc. Così dicendo, tu sei venuto ad anticipare un discorso che avrebbe avuta la sua sede appropriata nel commento all’articolo 316bis: andiamo per ordine, qui limitiamoci a vedere come va ripartita la spesa, diciamo così, per provvedere ai bisogni, che i coniugi hanno concordato di soddisfare.
E per cominciare ti faccio questo caso: la spesa é di duemila euro, ma Caio é povero in canna e non guadagna niente, é disoccupato: i duemila euro escono solo dal portafoglio di Caia?
Doc. Bisogna vedere, se Caio é disoccupato perché gli piace fare....il disoccupato o perché non trova lavoro. Infatti la norma non commisura l’obbligo contributivo al reddito professionale, ma, la cosa é ben diversa, “alla capacità di lavoro”. Di conseguenza, Caio deve contribuire in proporzione al reddito che ricaverebbe se...decidesse di lavorare; e, se non lo fa, deve considerarsi inadempiente.
Disc. Ma facciamo il caso di Caia che, pur potendo trovare un lavoro come insegnante, preferisce stare in casa a fare i lavori domestici.
Doc. In tal caso - premesso che partiamo qui dal presupposto che, tra i bisogni della famiglia da soddisfare con i duemila euro, i coniugi abbiano inclusi anche quelli della pulizia della casa, della preparazione dei pasti e simili - bisogna mettersi a fare....qualche calcolo: bisogna stabilire la somma, che guadagnerebbe Caia se si impiegasse: metti che tale somma sia di duemila euro, e che a tanto ammonti anche il reddito di Caio, cosa per cui i coniugi avendo un reddito eguale e quindi dovendo contribuire in modo eguale, il contributo di Caia dovrebbe essere di mille euro. A questo punto bisogna vedere quanti soldi fa risparmiare Caia svolgendo lei, senza chiamare una collaboratrice domestica, i lavori di casa: mettiamo che faccia risparmiare proprio mille euro: in tal caso si dovrebbe concludere che Caia soddisfa al suo obbligo contributivo svolgendo il lavoro casalingo.
Disc. Quindi la formula legislativa, non troppo felice, va interpretata come se suonasse “Entrambi i coniugi sono tenuti a contribuire, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale, tenuto conto del lavoro casalingo eventualmente svolto da un coniuge”.
Mettiamo ora che, non sia Caia, ma Caio, a preferire di stare in casa: egli non cucina e non pulisce per terra, però tiene in ordine l’orto facendo risparmiare i mille euro, che occorrerebbero per pagare un giardiniere: come si stabilisce se egli soddisfa o no al suo obbligo contributivo?
Doc. Con gli stessi criteri con cui lo si é stabilito or ora per Caia: dalla somma che dovrebbe dare Caio, si detraggono i soldi, che fa risparmiare. Infatti, all’espressione legislativa “lavoro casalingo”, va data un’interpretazione estensiva.
Disc. Si tiene conto del reddito che un coniuge ricava dal suo patrimonio?
Doc. Di più, si tiene conto del suo patrimonio, delle sue “sostanze” per usare la terminologia legislativa, che esse diano, o no, un reddito.
Disc. Spiegati meglio.
Doc. Per spiegarmi meglio dovrei scendere a fare più ipotesi, e ciò ti renderebbe troppo gravoso l’ascoltarmi. Mi limiterò quindi a farne, di ipotesi, solo due, ma che dovrebbero essere sufficienti a indirizzarti nell’applicazione pratica dell’articolo 143.
Prima ipotesi: la spesa occorrente (per soddisfare i bisogni della famiglia) é di duemila; Caia, l’altro coniuge, guadagna tremila euro; Caio ha una capacità lavorativa che gli procura o che gli potrebbe procurare mille euro: ebbene, se Caio ha un patrimonio che gli procura o gli potrebbe procurare altri duemila euro, la sua capacità a contribuire alle spese si deve considerare pari a quella di Caia, per cui metà della spesa, cioé mille euro, tocca elargirla a Caia e, metà, a Caio.
Disc. Ma se il patrimonio di Caio non dà e non é in grado di dare nessun reddito?.
Doc. Questa é la seconda ipotesi che ti volevo fare: in tal caso, a mio parere, occorre valutare la somma che si realizzerebbe dalla vendita dei beni di Caio e il reddito che tale somma verrebbe a dare. Metti che il reddito, che tale somma verrebbe a dare, sia da calcolare in mille euro (mensili): questi mille euro dovrebbero aggiungersi al reddito lavorativo (potenziale o reale) di Caio, al fine di paragonare la sua capacità contributiva con quella dell’altro coniuge.
Disc. Ma vendere i beni di Caio potrebbe essere antieconomico: potrebbero essere beni che venduti tra cinque e dieci anni renderebbero il doppio.
Doc. Non ho detto che occorra effettivamente vendere i beni di Caio: questa é una di quelle decisioni di straordinaria amministrazione, che i due coniugi, Caio e Caia, debbono prendere insieme.
Però, se i beni non si vendono, bisognerà calcolare che Caia acquista verso Caio un credito di mille euro (al mese).
Disc. Mi gira la testa a seguire tutti questi calcoli, che sono, non da giuristi, ma da ragionieri.
Doc. E infatti noi giuristi ci guardiamo bene dal farli e ci accontentiamo di stabilire la capacità contributiva di un coniuge...ad occhio. Forse questo spiega anche la (pur sempre infelice) formula legislativa, il suo riferirsi a un contributo stabilito tout court “in relazione” e non ““in proporzione” dei beni (…..) dei coniugi: il legislatore probabilmente si é reso conto che, fare un calcolo rigorosamente proporzionale di quanto é obbligato a dare ciascun coniuge, sarebbe stato.... superiore alle capacità matematiche di noi, magistrati e avvocati.
Disc. Che succede, - se uno dei coniugi, metti Caio, contribuisce al menage familiare, non meno, ma più del dovuto: avrebbe dovuto dare mille e, invece, o in soldi o in “lavoro casalingo”, dà duemila o anche più - e poi i coniugi si separano o il matrimonio si scioglie?
Doc. A mio parere, se si accertasse – cosa che, ti anticipo subito, é ben difficile, per cui, quello che ti sto facendo, consideralo pure un “caso di scuola” - che Caio ha effettivamente dato un quid pluris, bisognerebbe prima di tutto stabilire, se l’ha dato per errore (io, Caio, fermo alla vecchia normativa, dò duemila perché erroneamente ritengo di dover sostenere da solo, com’era una volta per il marito, tutte le spese della famiglia) oppure consapevolmente (idest, consapevolmente di dare più del dovuto): nel primo caso, si dovrebbero applicare le norme sul pagamento di indebito (artt.2033 e ss) e quindi riconoscere a Caio il diritto a vedersi rimborsato quanto da lui indebitamente pagato; nel secondo caso, si dovrebbe considerare il pagamento del quid pluris come una donazione (bada, non come l’adempimento di un’obbligazione naturale, dato che per il nostro codice, vedi l’articolo 2034, un pagamento può dirsi fatto in adempimento di un’obbligazione naturale quando é fatto in adempimento di un “dovere morale o sociale” e nessun “dovere morale o sociale” impone a un coniuge di contribuire più del dovuto alle spese della famiglia).
Disc. Mettiamo che si stabilisca che Caio ha dato quei mille e più euro a titolo di donazione.
Doc. In tal caso occorrerebbe ancora stabilire, se Caio voleva, con la sua donazione, beneficare il coniuge o i figli o, cosa più probabile, il coniuge e i figli (Caio, provetto muratore, nelle ferie estive ristruttura la casa di campagna perché tutta la famiglia vi possa passare l’estate beatamente al fresco).
Disc. Mettiamoci nella prima ipotesi.
Doc. Nell’ipotesi che Caio abbia dato il quid pluris solo per beneficare il coniuge, egli, qualora si separi da questo (non importa se per colpa sua o di questo) o il matrimonio si sciolga per causa non fisiologica (idest, si sciolga per “divorzio”, annullamento ecc e non per morte del coniuge), avrà diritto alla restituzione del donatum (per le stesse ragioni per cui il legislatore riconosce il diritto “alla restituzione dei doni” nel caso di rottura di fidanzamento, art.80).
Disc. Nella seconda ipotesi evidentemente tu invece negheresti il diritto al rimborso. E nella terza?
Doc. Anche in tale terza ipotesi, come nella seconda, io negherei il diritto al rimborso: questa soluzione, non in perfetta regola con la logica, essendo imposta dalla difficoltà pratica di accertare quanto del donatum era, nelle intenzioni di Caio, per i figli, e quanto per il coniuge.
Disc. Una bella matassa da sbrogliare insomma.
Doc. Eh sì. Ma la difficoltà maggiore, come ti ho anticipato all’inizio, sarebbe quella di stabilire se quel quid, di cui Caio pretende il rimborso, era veramente un quid pluris.
Infatti, stabilire ciò, presupporrebbe la ricostruzione del reciproco dare e avere tra Caio e Caia, cosa, specie a notevole distanza di tempo, pressoché impossibile. Non é infatti che tutte le famiglie siano così ordinate, che i coniugi, in un dato giorno del mese, si riuniscono e, presa carta e penna, redigono un preventivo di spesa: “Abbiamo da soddisfare questa e quella esigenza familiare, per ciò occorrono duemila euro, mille toccano a te e mille a me: quindi apriamo entrambi i nostri portafogli e versiamo in cassa duemila euro”. Tutt’altro che raramente, invece, le spese sono affrontate dai coniugi man mano che si presentano e, non con i soldi prelevati da una “cassa comune”, ma con quelli che il coniuge, che prende l’iniziativa della spesa, tira fuori dal proprio portafoglio.
Per cui vale il principio che, tutte le volte in cui, il riconoscimento a un coniuge di un diritto al rimborso, presupporrebbe la ricostruzione del dare e l’avere dei coniugi, tale riconoscimento va negato. Quindi, solo in casi ben rari, Caio potrà chiedere la restituzione del quid datum (per un esempio di tali casi, che, se pur rari, non possono essere negati, pensa a Caio, che chiede la restituzione del prezioso anello dato, evidentemente in dono, alla moglie in occasione del suo compleanno).
Disc. Tu hai fatto prima riferimento al coniuge, che adempie al suo dovere contributivo “tirando fuori i soldi dal suo portafoglio”; ma a me pare che nulla vieti al coniuge, su cui ricade la spesa dell’acquisto della bicicletta al figlio, di acquistarla, sì, ma, non pagando il negoziante “pronto cassa”, ma semplicemente assumendo nei suoi confronti l’obbligo di pagarla.
Doc. In tal caso, io, tornando a fare il ragioniere e non l’avvocato, escluderei che, se l’acquisto é fatto in maggio, si debba calcolare come contributo alle spese del mese di maggio la somma, che Caio non ha pagata, ma solo si é obbligato a pagare, metti, a Settembre; e riterrei preferibile ritenere che, in tal caso, Caia semplicemente acquisisca un credito verso Caio per l’ammontare del debito verso il negoziante, cosa per cui a settembre Caio, per pareggiare i conti, aggiungerà, al contributo da lui dovuto per le spese di settembre, il pagamento dovuto per la bicicletta al negoziante; ad esempio, se, la spesa preventivata per settembre e che i coniugi debbono sostenere in parti eguali, é di duemila e la somma, che Caio a maggio, cioé al momento dell’acquisto della bicicletta, non ha dato al negoziante e che a settembre si deve dare, é di duecento, Caia dovrà dare ottocento e Caio 1200 (1000 contributo mensile + 200 arretrato relativo alla bicicletta = 1200).
Disc. Si deve far rientrare, nel dovere di contribuire ai bisogni della famiglia, anche l’obbligo di un coniuge di dare la sua fideiussione alle obbligazioni, che l’altro coniuge contrae, beninteso contrae nell’interesse della famiglia?
Doc. Certo é ben ammissibile, anzi é fisiologico, che Caio e Caia si obblighino solidalmente verso il terzo, che vende loro un bene necessario per la famiglia (o esegue una prestazione, per la famiglia, necessaria). Ma – e qui torna a parlare il ragioniere che evidentemente sonnecchiava in me - se si conviene che il dare e l’avere, metti per il mese di maggio, é per Caio e Caia in perfetto pareggio qualora Caio sostenga la spesa A e Caia sostenga la spesa B, si cade in contraddizione logica qualora si sostenga poi che tale pareggio ancora sussista e non sia sballato nel caso si aggiunga a Caio il peso, che tale é, di dare la fideiussione all’obbligazione che Caia deve assumere per la spesa B.
Insomma, tutto possono fare i coniugi, purché rispettino la logica e le regole contabili (oppure se si vogliono tanto bene, da essere sicuri di...poter fare a meno di una contabilità ordinata).
Disc. Ma rispetto al terzo (che vende la cosa, che rende il servizio necessario alla famiglia) Caia, il coniuge che conclude con lui il contratto, risponde da sola personalmente o solidalmente con Caio? Ad esempio, Caia ha acquistato dal mobiliere Parodi un armadio per mille euro: questi mille euro il mobiliere li può chiedere solo a Caia o anche a Caio (ovviamente partendo dal presupposto che questi sia condebitore solidale con Caia)?
Doc. La risposta a questa domanda rimanda alla soluzione di due diversi problemi: primo problema: tutelare o no l’affidamento del terzo che ha contrattato, sì, con Caia, ma fidando di potersi soddisfare all’occorrenza anche sul patrimonio di suo marito, Caio? A questo primo problema noi cercheremo di dare una soluzione in altre sede e precisamente trattando del regime della separazione dei beni. Passiamo al secondo problema, che é questo: la salvaguardia del principio della “parità dei diritti” dei coniugi (primo comma art. 143), pretende che Caio sia chiamato a rispondere solidalmente delle obbligazioni contratte dalla sola Caia? Sì, si sostiene, perché altrimenti Caia, il cui patrimonio é esangue, mentre quello di Caio é panciutello, avrebbe meno chances di Caio di poter compiere quegli “atti attuativi dell’indirizzo familiare concordato”, previsti dal capoverso dell’articolo 144 (perché quei negozianti che si fiderebbero a far credito a Caio, non si fiderebbero a farlo a lei). No, dico io, perché, mentre il riconoscimento della “parità dei diritti tra i coniugi” mira a tutelare la personalità del coniuge-debole (dalle sopraffazioni del coniuge-forte), l’attribuzione a un coniuge del potere di compiere autonomamente (cioé senza il previo consenso dell’altro) gli “atti attuativi dell’indirizzo della vita familiare”- non mira a tutelare tale personalità (tanto é vero che. in ogni momento, l’altro coniuge, come abbiamo visto in un precedente paragrafo, può bloccare l’esercizio di tale potere: Caio può dire “No, non voglio che si acquisti la tal cosa” e Caia non la può acquistare) - ma semplicemente a rendere più efficiente e rapida la gestione del menage familiare: quindi, se anche si verificasse una limitazione (in facto e non in iure) di tale potere per un coniuge, questi non potrebbe dire che la sua personalità é stata sacrificata.
Disc. Dobbiamo ora parlare dell’obbligo, che ciascun coniuge ha, di contribuire all’adempimento dell’obbligazione, posta ai genitori, verso i figli, dall’articolo 147; il quale precisamente recita: “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto é previsto dall’articolo 315 bis”.
Doc. Riterrei opportuno che tu leggessi subito anche l’articolo 148.
Disc. Leggo l’articolo 148: “I coniugi devono adempiere l’obbligazione di cui all’articolo 147 secondo quanto é previsto dall’articolo 316bis”.
Leggo quindi anche il primo comma di questo art.316bis, il quale recita: “I genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo. Quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli”.
Doc. Parliamo della prima parte del comma ora letto: non é certo tra le più felici: leggendola si ha l’impressione che i coniugi adempiano ai loro doveri genitoriali solo aprendo il portafoglio: il legislatore avrebbe fatto bene a nominare, accanto alla “capacità di lavoro professionale o casalingo”, la capacità educativa. Non può essere dubbio però che, al loro dovere di “mantenere, educare, istruire” i figli, i coniugi debbano provvedere non solo “in proporzione alle loro sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo”, ma anche in relazione alla loro capacità educativa (“in relazione” e non “in proporzione”, perché questa seconda espressione sarebbe stonata se riferita alla “capacità educativa”, mentre stonata non sarebbe stata, anzi, se usata per la “capacità di lavoro professionale o casalingo” - il che non é stato: il legislatore ha un po’ pasticciato.)
Peraltro, a commento di questo comma, possiamo richiamare quanto già osservato più sopra commentando il terzo comma dell’articolo 143: abbiamo già detto che, le leggerissime diversità di formulazione tra questo terzo comma e il primo dell’articolo148, non vanno per nulla sopravalutate. Va solo ricordato che, mentre, la somma destinata dai coniugi ai bisogni, diciamo così, “generici”della famiglia, é rimessa alla loro discrezione, la somma invece destinata ai bisogni dei figli deve essere proporzionata alle loro sostanze e alle loro capacità di lavoro: Caia e Caio, anche se miliardari, possono contentarsi di vivere come poveracci, ma debbono permettere di vivere ai figli come miliardari.
Merita qualche parola in più la seconda parte del comma in esame. Essa infatti fa obbligo agli ascendenti prossimi di fornire ai genitori i mezzi per provvedere ai bisogni dei loro figli.
Disc. Ma tale obbligo già non deriverebbe agli ascendenti dall’articolo 433?
Doc. Se non dall’articolo 433, isolatamente considerato, un obbligo degli ascendenti di provvedere ai nipoti, sopperendo la deficiente capacità economica dei loro genitori, effettivamente deriverebbe già dal combinato disposto di tale articolo 143 e del secondo comma dell’articolo 441 – secondo comma, che così suona: “se le persone chiamate in grado anteriore (come sono per l’articolo 433 i genitori rispetto agli ascendenti) non sono in condizioni di sopportare l’onere in tutto o in parte, l’obbligazione stessa é posta in tutto o in parte a carico delle persone chiamate in grado posteriore (come appunto lo sono nel caso gli ascendenti)”.
Disc. Cosa per cui?
Doc. Cosa per cui, la ragion d’essere della seconda parte del comma in commento, la sua “novità, se così ci piace esprimerci, va trovata – non nell’imposizione agli ascendenti dell’obbligo di sopperire alla mancanza di mezzi dei genitori – ma nel fatto che essi non debbono fornire direttamente tali mezzi ai nipoti (agli alimentandi, cioé) ma ai loro genitori.